Chi ha avuto il privilegio di leggere il primo articolo di questa serie, si è già imbattuto nella citazione del Modern Jazz Quartet (MJQ) e del pianista John Lewis, che, in qualche modo ne rappresenta l’essenza (e le contraddizioni). Il mio personale legame sentimentale a questo complesso è simbolicamente rappresentato da un LP a 33 giri: si intitola “Fontessa” e venne registrato nel 1956, pubblicato in origine dalla casa discografica americana Atlantic e distribuito in Italia dalla Music. In questo caso, almeno nel mio vissuto, il supporto diventa importante quasi quanto la musica che vi è contenuta. Nella ristretta conventicola di adolescenti appassionati di jazz di cui facevo parte, il LP a 33 giri era un lusso non facile da praticare; molto più diffusi i fragili 78 giri o i più economici EP a 45 giri. Il long playing esisteva in due differenti dimensioni: 25 o 30 centimetri di diametro. Quello da 30 cm lo chiamavamo, nel nostro gergo di ginnasiali, “il grande e costoso”: il primo grande e costoso, che entrò a far parte della mia discoteca e che tuttora occupa un posto d’onore sullo scaffale, fu appunto “Fontessahttps://www.youtube.com/watch?v=7c51puHTj7Q&list=PL2Zfl6RNziXwCINBRCSA59wV_fETY-t62 del MJQ. È un po’ incerottato dopo 60 anni di servizio, ma è perfettamente fruibile e sta girando sul piatto, anche in questo momento.

Il MJQ, appunto: vibrafono (Milt Jackson, 1923-1999), piano (il sullodato John Lewis, 1920-2011), contrabbasso (Percy Heath, 1923-2005), batteria (il grande Kenny Clarke, 1914-1985 all’inizio, poi sostituito da Connie Kay, 1927-1994). r-3869237-1347514581-8805-jpegNotate qualcosa? Sì, è vero, non c’è nessun strumento a fiato, niente trombe, tromboni, sassofoni. Di per sé questa considerazione non autorizza alcuna conclusione affrettate, né la aprioristica supposizione che l’assenza di fiati condizioni il tipo di musica che il complesso potrebbe produrre. Ma all’ascolto scopriremo che qui di fatto si privilegiano i toni smorzati, le atmosfere raccolte ed intime, contenute e morbide. A proposito di contenuti musicali: un altro disco del complesso si intitola, didatticamente, “Blues on Bach”, quasi a rappresentare una sorta di duplice matrice, di intrecciata discendenza. Sì, perché Lewis (che pure ha referenze jazz di prim’ordine, avendo accompagnato tra gli altri Miles Davis e Charlie Parker) ha sempre professato un forte interesse per la musica colta, una spiccata propensione a contaminare jazz e Bach, blues e musica barocca. I componenti del quartetto si presentavano in scena vestiti in modo formale ed impeccabile, suonarono al Maggio Musicale Fiorentino e al Mozarteum di Salisburgo e sarebbero stati perfetti per teatri come il Farnese di Parma, l’Olimpico di Vicenza, il Bibiena di Mantova. Avevano in repertorio brani dai titoli indicativi: Versailles, Vendome, La Ronde Suite, Concorde, Milano e appunto Fontessa, l’ambiziosa composizione che dà il titolo al mio “grande e costoso” LP e che è ispirata (udite, udite…) alla Commedia dell’Arte, con un preludio e ritratti che si propongono di delineare in musica i personaggi di Pierrot, Pantalone e Colombina, peraltro rappresentati anche nel dipinto di copertina. Tanta Europa, dunque, grande rigore formale, fughe e contrappunto. Tutto qui? Solo un esempio di quella che la critica americana definiva third stream, la terza corrente, l’area di contaminazione e fusione tra jazz e musica dotta, tra improvvisazione e accademia? Qualcuno trovò eccessiva questa marcata impronta “colta” e storse il naso: troppo ambizioso il progetto, troppi i rischi di snaturamento delle radici, dell’essenza stessa del jazz a tutto tondo. Altri sostennero a spada tratta il disegno di Lewis, elogiandone la grazia, il rigore e l’eleganza. Dibattito stucchevole, polemiche sterili. Più che di fusione, mi pare che ci troviamo davanti a una sorta di sovrapposizione, di stratificazione: ci sono due anime nel MJQ.

mi0001388119Cerco di spiegarmi meglio: il sottofondo jazzistico, quel richiamo all’impronta originaria di cui i critici più severi lamentavano la mancanza (“tutto vibrafono e afflizione” fu una delle definizioni più impietose della musica del quartetto), secondo me si avverte quasi sempre. Ma spesso è ricoperto, attutito e quasi contraddetto da trine e merletti, infiorature e decorazioni, ricami rococò, barocchismi e ridondanze, tutte eseguite in modo immacolato e con accademica impeccabilità. Ci sono occasioni in cui la sovrastruttura classicheggiante sembrerebbe prevalere, altre volte si mantiene in limiti tali da assicurare un soddisfacente livello di equilibrio tra le due culture, tra i contrastanti moduli espressivi. Semplificando, si potrebbero identificare queste due anime con i due protagonisti principali: Milt Jackson al vibrafono è la voce più autenticamente jazz, John Lewis al piano riflette la componente colta, classica. Non deve essere stata una convivenza facile e alla fine (1974) si sciolse. C’era stata, prima, la defezione di Kenny Clarke, che venne sostituito alla batteria – come detto – da Connie Kay: lui, Clarke, uno dei padri della batteria moderna, deve essersi stancato, a un certo punto, di atmosfere ovattate e un po’ estenuate. Ma torniamo alla lettura “geologica” della musica del MJQ. In molti brani si  sentono chiare le fondamenta jazzistiche: le sovrapposizioni stratificate di influenza dotta non cancellano quasi mai l’impronta originaria, che si sente fiammeggiare e guizzare sotto i merletti. In qualche occasione, invece, è la sovrastruttura a venire accantonata e il quartetto  ritorna quello che era stato all’inizio quando MJQ stava per Milt Jackson Quartet: una specie di libera uscita concessa alla genuinità, al diavolo la musica classica, mano libera al vibrafonista. Anche nel LP Fontessa c’è uno di questi brani. Il secondo pezzo del lato B, composto da Jackson, ha un titolo che non potrebbe essere più esplicativo: Bluesology https://youtu.be/lnxGc1f4e4E, inciso il 22 gennaio del 1956. L’estensore delle note di copertina, il critico Ralph J. Gleason, commenta che quando Milt suona il blues, il quartetto ha lo swing e la coesione della grande orchestra di Count Basie, il prototipo della big band.Il pezzo dura poco più di 5 minuti a tempo medio-veloce (medium up, direbbero gli americani): dopo l’introduzione e l’esposizione del tema, Jackson si aggiudica 7 sublimi choruses (12 misure ciascuno) in assolo, con accompagnamento puntuale e composto (forse un po’ petulante e troppo compiaciuto della propria eleganza) del  piano di Lewis, che poi si esibisce a sua volta in solo, prima della ripresa di Jackson e del tema finale.  Vien da rimpiangere solo l’assenza di Kenny Clarke alla batteria, i suoi grugniti, i gridolini di autocompiacimento nei passaggi più eccitanti. Perché inserire questo disco nella mia discoteca della memoria? Musicalmente, ancora mi emoziona, all’interno di questa costruzione ben concepita, il crescendo di tensione nel solo di vibrafono, lo scintillio, il  fiammeggiare crepitante del  fuoco sotto la cenere, una corrente impetuosa, una sequenza di idee inarrestabile. In Bluesology e altri brani dello stesso genere, la musica del MJQ non è certo too quiet, troppo tranquilla, come la aveva etichettata un altro critico  americano troppo frettoloso. Nossignore, questo è jazz autentico, a dispetto della educazione formale e dell’aria di rispettabilità che vi circola. Se poi preferite il MIQ nella sua versione più classicheggiante, basterà girare il LP e concentrasi sul lato A. Lì troverete Versailles, anzi Porte de Versailles, e poi Fontessa nelle parole del suo autore a little suite inspired by the Renaissance Commedia Dell’Arte. La (ri)ascolterò anch’io, ci mancherebbe altro; a patto che poi mi facciate tornare a “Bluesology”.

JazzFranco Carobbio.