Direzione, interpretazione, scenografia componevano un unicum formato da tasselli indistinguibili, tanto erano all’unisono. La “premiata ditta” del teatro di parola Peter Stein, al timone della regia, e Maddalena Crippa, a vestire i panni maschili del protagonista invertendo i canoni del teatro elisabettiano, ha portato sulle tavole del Teatro Romano a Verona gli esiti del lavoro imbastito in un sobborgo medievale immerso nella campagna umbra e messo a punto al Teatro Metastasio di Prato, co-produttore assieme all’Estate Teatrale Veronese.

Ha inaugurato il 69° Festival Shakespeariano Richard II, nella traduzione di Alessandro Serpieri, frutto di uno studio registico-attoriale che ha scavato nell’intimo dei personaggi, e tra i più riusciti dello spettacolo è risultato il consesso degli anziani, nel rapportarsi alla cecità della lotta per il potere. Il ritmo dell’allestimento si è dipanato lento, in verità fin troppo nel primo atto, e nel suo scorrere i colori delle figure sono diventati mano a mano più accentuati e per il pubblico la visione sempre più nitida, come se il regista avesse messo a fuoco l’obiettivo progressivamente. Il vero protagonista di Stein era il vuoto, inteso come solitudine dei pensieri, come sete di geometria delle forme, la cui relatività era messa a nudo nella scenografia (di Ferdinand Woegerbauer) dalle linee dritte che hanno trovato rispondenza nelle file ordinate nelle quali il regista ha disposto i soggetti sul palco. La scena era scomposta su due piani, di cui uno sovrastante e raggiungibile per mezzo di scalini celati, come le ascese e le cadute frutto di invisibili trame politiche. Un vuoto introspettivo per la Corte inglese, dove l’identità era limitata al rango e l’apparenza era sinonimo di esistenza. Cerimoniale confutato dalla delegittimazione del Re, il cui serto, deposto, ha sancito la fine del simbolismo di palazzo. Nella staticità scenica ricercata da Stein, la regalità era intesa al pari di un rito, non per sé stessa bastevole, se disgiunta dalla sostanza. Quest’ultima coincidente con il rodimento interiore di Riccardo, la magistrale Maddalena Crippa, dolente benché capace di conservare un’indole maiestatica, volubile ed emotiva, a tratti isterica. La voce dell’attrice si è trascinata, splendidamente stanca, nel pronunciare le parole di Shakespeare attorno alle quali è ruotato il suo Riccardo: “Puoi deporre la mia gloria, il mio potere, ma non le mie pene, di quelle rimango Re”. In Bolingbroke diventato King Henry IV (l’intenso Alessandro Averone), Riccardo ha ravvisato il fantasma della propria anima nascosta, il palesarsi di un sogno della mente. L’ultimo dei Plantageneti e il Duca di Lancaster hanno rappresentato diverse sfaccettature della personalità umana, in un alternarsi ciclico naturalistico che ha fatto della monarchia un modello scientifico da indagare. Un incessante, logorante interrogarsi su chi ognuno davvero sia, se si rimanga Re anche dopo aver ceduto il trono, anche dopo aver tolto dal capo la corona/maschera racchiudente l’essenza della persona. Un essere o non essere amletico, una lotta interiore che ha infine schiacciato questo Riccardo sotto il macigno della tristezza derivante dell’acquisita consapevolezza dell’inutilità della vita, una volta trovatosi faccia a faccia con la morte.

M.A.

(Foto Paolo Porto)