You forget the sun in his jealous sky. Al calare del sole, globi di luce hanno iniziato a rincorrersi sulle facciate dei palazzi, irraggiate dai proiettori che, dal palco, erano puntati verso i settemila in Piazza Sordello. Armonia potrebbe essere considerata la parola chiave del concerto che Sting ha tenuto a Mantova, sunto di tutta una vita artistica e personale, di una new age sviluppata in molteplici direzioni nel corso di quarant’anni di carriera e sessantacinque di vita. Armonia nel moto di perfezione circolare, generato dalle liriche dense di contenuti colti e poetici, fossero d’amore, di coscienza civile, o in favore dei diritti umani. Armonia sul palco, dove la band – Dominic Miller e il figlio Rufus Miller alle chitarre, Josh Freese alla batteria – non è parsa di supporto al mito, ma parte integrante di esso, in una sinergia andata oltre quella esecutiva, fino a diventare osmosi di pensiero. Superando i confini della connotazione unica, la scaletta ha suggerito trasversalità: le stesse che fanno di un artista, di questo artista, una pietra miliare dello star system musicale mondiale.

All’inizio, a impugnare la chitarra è stato il figlio Joe Sumner che ha proposto le sue composizioni, frutto di un processo ideativo esordito da varie ispirazioni congiunte a Sting artista e per unirsi idealmente a Sting, padre, in un senso di continuità generazionale. La musica è anche questo. Poi ecco il “Pungiglione” in ottima forma fisica ed emozionale, carico di energia positiva. Da subito inizia a concatenare brani, uno a rincorrere l’altro come onde sulla battigia del palco; maree in assonanza cosmica con lo Sting-universo. “Synchronicity II” è una sorta di manifesto programmatico della serata, nel cui testo, risalente al periodo dei Police, Sting fa riferimento alla teoria della sincronicità di Carl Gustav Jung e da lì elabora il proprio concetto armonico, anello di congiunzione dei temi affrontati. “Spirits in the material world” è seguito da “Englishman in New York”. A un indirizzo ben preciso della Grande Mela, all’incrocio tra le vie tracciate nel Tour 57th & 9th, abitano le canzoni d’amore, mistiche o romantiche: “She’s too good for me”, “Mad about you”, “Fields of gold”, “Shape of my heart”. Un percorso di avanzamento geografico – il cantante è inglese, naturalizzato newyorkese, con tenuta in Toscana – che diviene progressione ideologica, filo conduttore post spirituale: le ballad melodiche sono portate a vivere da momenti di trascendenza.

Una parentesi di distaccata diversità, entro cui sono compresi “Petrol head” tratto dall’album che reca lo stesso titolo del Tour, “Message in a bottle”, “Ashes to ashes” intonata dal figlio Joe, in ricordo di David Bowie. L’iniziale visione introspettiva si fa disincantata, fino ad arrivare a “Walking on the moon”, che completa la circolarità dell’anima del concerto tornando ai Police, assieme a “So lonely”, “Roxanne” in medley con l’omaggio “Ain’t no sunshine”, “Next to you” ancora con il figlio, ed “Every breath you take”, forse la più grande tra le grandi, in un concerto di sole hits, tutte immense. A chiudere “Fragile”, dove le stelle versano lacrime per un ingegnere ucciso in Nicaragua e per la vulnerabilità dell’uomo, contrapposta all’immortalità dell’artista.

L’intero excursus di pensiero è riconducibile a una potenzialità non ancora esauritasi, che ci accompagnerà negli anni a venire.


Recensione Maria Luisa Abate
Immagini by: Roberto Fontana