“Io sono qui o là o altrove. Il mio principio è la mia fine”. L’incipit era pronunciato in una nera tuta da jogging. A piedi nudi, assorbendo energia dal contatto con il terreno, la protagonista si è apprestata alla breve maratona attorno al rinnovarsi di un mito. Il cappuccio, scostato, ha rivelato i capelli color tiziano, la felpa si è ricoperta di lembi di tessuti pronti a essere assemblati in varie fogge, seguendo un cammino letterario di stupefacente omogeneità. La moderna antichità di Omero, Euripide, Seneca, Virgilio, Eschilo, sovrapposta integrata compenetrata con la contemporaneità di Wolf, Baudrillard, Szymborska, Ritsos.

Elisabetta Pozzi è tornata nuovamente a essere la sacerdotessa figlia di Ecuba e Priamo, con la competenza derivante da anni di approfondimento sul personaggio. Nel corso dell’Estate Teatrale Veronese, l’attrice ha riproposto un tema vissuto in diversi allestimenti e che ora, magnificamente condensato nel suo nucleo, ha acquisito un nuovo sottotitolo: “Cassandra site specific”. Specifico per il luogo, Corte Mercato Vecchio, era l’esordio, una visione profetica all’indietro per attingere dall’oggi i rumori che rimandavano echi arcaici, voci di mercanti e di giudici, proclami di Re e Regine, grida di guerrieri, il succedersi di persone attraverso i secoli. La Scala della Ragione, come la Porta dei Leoni di Micene, suggeriva il possibile passaggio verso una nuova, profonda, acquisizione di nozioni destinate a rimanere inudite, racchiuse entro mura. “Il mondo è una fortezza e il linguaggio, vi aderisce senza grinze”. Il cielo di Troia e di Micene era lo stesso di Verona, sferzato dal vento complice, site specific, che ha fatto rimbalzare lontano le musiche taglienti di Daniele D’Angelo, che hanno tramutato questo lavoro in una sorta di melologo.

L’immensa Elisabetta Pozzi predilige il teatro di parola, definizione che a lei calza stretta. La sua voce, il suo gesto, la sua mimica facciale, l’espressività in senso lato, sono evocazione poetica, di pittorica nitidezza. L’attrice ha scomposto l’essenza della profetessa, per ricomporla in forme cangianti. Cassandra era il guerriero Agamennone, era la regina Clitemnestra, era quello stesso dio Apollo che, dopo averle donato la preveggenza, la rese inascoltata e inutile.

In scena due sedie e una grande cassa, avente la funzione di un classico baule teatrale dal quale sono fuoriuscite le figure, poi tornate a esservi re-imprigionate. Di lato, sormontato da un elmo, un cumulo di detriti che Pozzi / Cassandra ha cavalcato come il suo cavallo di Troia, spronato al galoppo attraverso la storia, con impeto da amazzone, per diluire nel tempo e il peso soverchiante della cognizione.

La solitudine eroica di Cassandra ha coinciso con l’isolamento interiore di chiunque possegga il dono della vera sapienza, derivante dal saper leggere il presente. Una consapevolezza che ha comportato dolore fisico, sgorgato in un urlo straziante scioltosi in canto, in nenia, in litania altalenante tra le ragioni di troiani e micenei, tra la speranza e la resa. L’epilogo di lucida amarezza era nella summa, dal sapore di una favola tragica, scritta da Massimo Fini ispiratosi a Nietzsche: “C’era una volta una stella su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il momento più menzognero e tracotante dell’universo”. L’uomo è profetizzato come malattia del creato, causa la sua troppa razionalità, la sua pertinace cecità alla realtà, l’incapacità di porsi limiti; per l’utopia di appagamento che è il cavallo di Troia della società umana di qualsiasi epoca.

Immagini di Ida Brenzoni.

M.A.