Hanno fatto ritorno a Verona, per la prima volta al Teatro Romano, gli Stomp, fenomeno planetario, nomination agli Oscar, esibitisi alle Olimpiadi di Londra, all’Acropoli di Atene, davanti al Presidente Clinton. Diciamolo subito: gli Stomp non sanno apparentemente fare alcunché, se non i percussionisti, o i rumoristi. Niente coreografie, anche se sono stati compresi nella sezione Danza dell’Estate Teatrale Veronese 2017, niente numeri acrobatici, niente parole, niente trama, niente base sonora. Solo fragori a fendere il silenzio e piccoli, grandi, sprazzi di espressività grazie al “giullare” del gruppo, che buffone non è, ma abile affabulatore mimico. Allora perché tanto successo? Comunicazione è la parola chiave e trova il suo punto di forza nella semplicità e nell’immediatezza del messaggio teatrale. Fondata nel 1991 a Brighton dai laureati honoris causa Luke Cresswell e Steve McNicholas, la Compagnia è suddivisa in cinque formazioni che si esibiscono contemporaneamente in diversi angoli del pianeta. Phil Batchelor, Charlie Ruane, Adrien Rakotondrajao, Shae Carroll, Dominick Schad, Louise Durand, Emma King, Angus Little, Ian Vincent, Jamie Welch e Rhona Ashwood sono testimoni della contemporaneità, con la quale dialogano risvegliando gli istinti connaturati all’umano genere.

Si rivolgono a una società che conosce la bivalenza della musica, che da un lato ci ha regalato Beethoven, Verdi o Puccini, tanto per citare i compositori eseguiti negli stessi giorni sulle opposte rive dell’Adige, dall’altro si è evoluta/involuta verso vibrazioni primordiali, eppure di sorprendente, parallela, modernità. Gli Stomp si divertono, e gli spettatori con loro, a riscoprire e a tramutare in espressione artistica il suono generato da oggetti comuni: il tonfo sordo del legno delle scope, il frusciare delle scatole di fiammiferi agitate come maracas, il rimbombo dei bidoni di plastica e il clangore di quelli metallici. Le glissate a fisarmonica dei tubi estensibili, nell’atto d’essere allungati e ricompattati, il gorgoglio dell’acqua di scolo di lavelli appesi al collo a mo’ di tamburi: voci di un’insolita orchestra che compongono insospettabili melodie e armonie. Tanti strumenti inchiodati alle pareti assieme a cartelli stradali, che formano una scenografia da Pop Art postindustriale. Il tutto, senza dimenticare le radici recenti. Stomp significa calpestio e protagoniste sono le suole delle scarpe sbattute sul palcoscenico con rabbiosa violenza, o con la delicatezza delle vecchie claquettes, anche con l’escamotage della sabbia sparsa sul pavimento a rendere ruvide le strisciate di tip-tap in stile, Fred Astaire, non fosse per i tatuaggi al posto dello smoking. Un transfer visivo ed emozionale che rivela come sotto al picchiare forsennato di un bastone su una superficie,m ci possa essere qualcosa di più. C’è il ritmo frenetico, cadenzato, che coinvolge in mute conversazioni a suon di battimani il pubblico, affamato di formule elementari, di sensazioni ancestrali, metabolizzabili “a pelle”. Ritmi tribali della giungla metropolitana. Il pulsare atavico della Terra.

M.A.G.