Aspetta un momento … fammi guardare … solo un attimo … volevo verificare una cosa … ma sì … un controllo retrospettivo sui dischi che ho trattato in questa serie di articoli … ecco … dunque, vediamo, ecco qua l’elenco … Ellington,  Armstrong … come no … un altro Ellington … un altro Armstrong … certo … Miles Davis … Lester Young … Parker naturalmente … il Modern Jazz Quartet … John Lewis … il blues di Robert Johnson.

Ecco, me lo sentivo, visto che ho fatto bene a controllare? Come perché? Ma non c’è neanche un disco di un musicista bianco: qualche allarme deve essere risuonato profondo dentro di me a mettermi in guardia nei confronti di un indirizzo poco politically correct che stavo mio malgrado prendendo. Però, niente succede per caso e non voglio rinnegare le scelte che ho operato: per il mio inconscio evidentemente  il jazz è in primo luogo la musica delle popolazioni nere d’America. Ed io sono d’accordo con lui. Oggi quest’alternativa/contrapposizione tra jazz bianco e nero può sembrare datata e oziosa, ma al tempo verso cui si volgono questi ricordi era una disputa aperta e controversa tra critici e appassionati. Che io (e il mio inconscio) vediamo la questione come ho appena detto, non m’impedisce certo di riconoscere che ci sono stati grandissimi musicisti bianchi. Qualche nome: Bix Beiderbecke, Lennie Tristano, Bill Evans, l’omonimo Gil Evans, Lee Konitz e potrei proseguire fino a stancare il più paziente dei miei pazienti lettori. Ma, tornando al tema di questi articoli, sento il dovere di fare un primo passo e dedicare il presente a un trombettista e cantante bianco molto famoso soprattutto negli anni ’50 e ’60: Chet Baker (23.12.1929-13.5.1988). Che i dischi di cui vado cercando traccia nella mia memoria non riflettano (solo) un percorso di valore puramente estetico – critico, ma siano strettamente intrecciati ad accadimenti, persone, luoghi della mia adolescenza l’ho già sottolineato più volte: in questo caso, nel caso di Chet Baker, il legame è ancora più forte e per certi versi pungente e doloroso.

Uno degli amici che componevano la ristretta conventicola di adepti, con i quali condividevo l’audizione di dischi, le lunghe discussioni e gli sciagurati tentativi di fare musica era il Pedro. Alto e allampanato, un largo sorriso la cui origine o causa determinante poteva a volte risultare misteriosa o indecifrabile, uno sguardo chiaro da rapace, un’aria un po’ più adulta rispetto agli altri membri del gruppo: Il Pedro suonava (provava a suonare) la tromba e Chet Baker era uno dei suoi idoli. Ma sull’assonanza tra i due torneremo. Adesso parliamo di Baker: il suo impatto sul mondo del jazz si manifestò soprattutto grazie alla fruttuosa, anche se non lunga milizia nei ranghi del Quartetto di Gerry Mulligan, uno dei complessi guida del jazz californiano o West Coast Jazz. Era un quartetto pianoless cioè senza il pianoforte: tromba (Baker), sax baritono (Mulligan), basso e batteria. Ebbero un successo enorme, incisero tantissimo: piacquero a molti critici e appassionati il contrasto tra la scura sonorità del baritono e i toni chiari e un po’ opachi della tromba, il contrappunto sottile tra i due, la verve compositiva del leader. Da questo trampolino di lancio prese il volo la carriera di Chet, che registrò a sua volta una quantità di dischi a proprio nome sia negli USA che in Europa e anche in Italia, come dimostrano alcuni titoli scelti a caso in una discografia sterminata: “C. B. with Fifty Italian Strings”, “C. B. in Milan”, “C. B. Italian Sessions”,  “C. B. at Capolinea”, “C. B. in Bologna”, “C.B. Live from the Moonlight Club in Macerata” e infiniti altri. Si scoprì presto una vocazione di cantante, con esiti molto controversi.

Il consueto florilegio di opinioni critiche: “Voce quieta di una bellezza quasi strisciante, che sarebbe diventata via via più sepolcrale con il passare degli anni. Non certo un cantante rivoluzionario alla Armstrong” (Penguin Guide to Jazz); “Buone esecuzioni, hanno qualità duratura e rendono incongrua l’accusa di effeminatezza che gli è stata rivolta. Gli assoli di tromba sono esempi chiari del suo approccio lirico, i vocali si inseriscono nella tradizione del canto jazz e non sono cedimenti alla pressione del mercato. Musica calda, senza affettazione, gentilmente romantica e sottilmente espressiva” (Chris Sheridan). Non tutti, ovvio, la pensano così. Sentite Bruce Crowther: “La cosa migliore è la breve durata dei brani. Cosa abbia ispirato Baker a cantare va al di là della mia comprensione: perché mai affidare al disco questi vocali senza scopo e spesso stonati? È uno dei trombettisti che avrebbero fatto meglio a cantare solo in bagno.  Qualche solo di tromba grazioso ma non emozionante. Ho un pregiudizio, forse, ma il suo lavoro non mi è mai sembrato degno degli elogi a volte alti che gli sono stati rivolti.”. Anche Gordon Jack va giù pesante: “I suoi vocali sembrano, a differenza delle parti di tromba, completamente privi di qualsiasi emozione”. E ancora: “Nei suoi primi brani cantati c’era una nota di innocenza naïve, ma molti considerano questa una parte ridottissima del suo talento. Ci sono buoni, brevi assoli in alcuni brani, ma anche questi momenti ispirati non bastano a sollevare dalla tristezza di tutti questi vocali”. Per dare voce anche a chi apprezza, ecco Brown, in una recensione a una riedizione in CD di “Chet Baker sings”: “Se serve una prova di quanto valida fosse la canzone popolare prima dell’avvento del r&r, ascoltate queste delizie, che ne sono solo un piccolo assaggio. Esecuzioni del tutto libere da pretenziosità o calcolo, vocali e tromba attrattivi, diretti e semplici, mai forzate e di grande competenza. Ma molti ascoltano superficialmente e si basano sulla inaccurata percezione di altri. Un classico molto amato, merita un posto in ogni collezione”.
Il disco che ho scelto di proporvi, come esempio di questa musica così discussa è “Look For The Silver Lininghttps://youtu.be/NTXube050D4 inciso il 15 febbraio del 1954 a Los Angeles. Accompagnano Chet il pianista Russ Freeman, il bassista Carson Smith e il batterista Bob Neel: introduzione del piano, ritornello vocale di Chet, assolo di piano efficace e percussivo di Russ Freeman, tromba pacata e serena, ripresa del vocale, chiusura banalotta della tromba. Il tutto dura 2 minuti e 39 secondi, non succede nulla di sensazionale: non c’è una vera ragione che mi abbia guidato in questa scelta, poteva andare bene anche un altro dei titoli compresi nel CD (escludendo la funereaMy Funny Valentine”, la più citata dalla critica, che io trovo però deprimente e monotona). Resta ancora a distanza di tanti anni la mia difficoltà a comprendere come una musica così dolce e serena nascesse e si sviluppasse tra tragedie personali e infernali contesti.

Tutte queste considerazioni limitative mi inducono a rispondere in via preventiva a una serie di considerazioni interrogative che forse qualcuno di voi lettori si è già posto: “Ma se Jazz Franco doveva scegliere un jazzman bianco, non poteva trovarne uno meno discusso e limitato?”. “Se il Chet Baker cantante è quello che lascia più dubbi, non poteva trovare un altro suo disco solo strumentale e più generalmente accettato dalla critica?”. Tutto vero, carissimi lettori, verissimo anzi. Ma qui viene fuori l’altra faccia di questi ricordi, quella più intima e personale. Mi sono ricordato che il Pedro spingeva la sua ammirazione per Baker fino a tentare una maldestra replica dei suoi vocali e che questo brano era uno di quelli che utilizzava per i suoi tentativi.

Due personaggi sventurati. Chet si fece, tra le altre disavventure, un anno di carcere a Lucca (conseguenza della sua dipendenza dall’eroina), perse tutti i denti in una rissa forse con spacciatori di droga, venne espulso dalla Germania e dall’Inghilterra, morì cadendo da una finestra di un albergo di Amsterdam, probabilmente sotto l’effetto della droga, o di una crisi di astinenza. La targa posta sul luogo della morte dice: “Egli vivrà nella sua musica, per tutti coloro che vorranno ascoltarla e capirla”.  Il Pedro  ebbe anche lui la sua parte di guai, compreso un periodo in galera. Era e forse è tuttora sempre alle prese con difficoltà economiche: anche a me chiese del denaro appena seppe che ero rientrato in città dopo anni di lavoro in altri territori. Messo sull’avviso da un comune amico rifiutai e lui mi rispose con una lettera piena di offese irriferibili. Povero Chet, povero Pedro. Meglio riascoltare ancora una volta “Look for the Silver Lining”, meglio ricordare la faccia di Chet quando sembrava uno studente californiano o il loden del Pedro, quando camminavamo sotto i portici a guardare le ragazze o a farci un bicchiere di vino.

JazzFranco