In una “Copenaghen” plumbea si ritrovano tre scienziati. Sono morti, eppure elucubrano vivacemente. Si parla di vera fisica teorica quantistica, nel lavoro del drammaturgo britannico Michael Frayn. Le equazioni scritte con il gesso su grandi lavagne (scenografia di Giacomo Andrico) si affastellano, nel confronto tra cervelli. Il piano narrativo da matematico si fa etico e senza tempo. È giusto che il pensiero scientifico diventi un mezzo di distruzione? Quanti milioni di persone sono morte a causa dei progressi dell’ingegno? Il dubbio è angosciante, l’atmosfera in scena pure.

Frayn rievoca un celebre incontro realmente accaduto nel 1941, di cui i protagonisti non rivelarono mai la sostanza, ma che fu cagione della fine dei loro rapporti lavorativi e d’amicizia. Werner Heisenberg, capo del programma militare nucleare tedesco appoggiato dalla Gestapo, si recò in visita nella casa del suo maestro Niels Bohr, futuro partecipante al progetto statunitense Manhattan, e di sua moglie Margrethe. Cosa si dissero i due Premi Nobel? Si trattava di un avvertimento, di un tentativo di accelerare la creazione della bomba atomica o invece di sabotare la ricerca?

Il testo snocciola una serie di supposizioni, così come elenca formule matematiche e teorie partendo dalla Relatività di Einstein. I Principi di Indeterminazione e di Complementarietà effettivamente elaborati dai due geni, rappresentano le fondamenta della costruzione drammaturgica della pièce. Il regista Mauro Avogadro racchiude il fulcro dell’opera nel quadro in cui i tre, per spiegare il comportamento degli atomi, impersonano gli elettroni roteanti attorno al nucleo, che seguono percorsi propri finché lo scontro casuale imprime loro una diversa traiettoria. Con la tensione di un thriller dark, e in sottofondo gli echi delle leggi razziali, il conflitto verbale deflagra generando una reazione a catena, tra stoccate, affondi e colpi bassi che fanno alzare una nuvola a fungo densa di domande. Gli incontri-scontri si scompongono su vari livelli, azzerando la divergenza tra numeri e morale, e ponendo in risalto le difformità che intercorrono tra psicologia della scienza e psicologia dello scienziato. La verità è un punto di vista di un singolo individuo, è la conclusione tratta da Frayn. Tutto è umano, niente è assoluto. Lo spettacolo trae forza dall’Indeterminatezza delle risposte, dalla Complementarietà dell’elaborazione richiesta a ciascuno spettatore.

Questa classico del teatro contemporaneo, per quanto intelligibile, è impegnativo. Risulta perciò indispensabile uno spessore attoriale straordinario. A interpretarlo sono tre mostri sacri, tre maestri del teatro di parola, gli stessi che lo portarono per la prima volta in Italia quasi vent’anni or sono. Massimo Popolizio, loquace e incalzante nei panni di Werner Heisenberg. Giuliana Lojodice, Margrethe drammatica e spigolosa, nondimeno strumento di comunicazione tra i due. Umberto Orsini si è mosso su un differente piano espressivo, e ha fatto librare i calcoli e i ragionamenti di Niels Bohr in una dimensione di eterea leggerezza, illuminata da ombre e luci anch’esse indeterminabili e complementari. Grazie a Orsini, la realtà ha acquisito una nuova valenza, stupendamente irreale.

M.A.

Visto al teatro Sociale di Mantova il 1 dicembre 2017
Foto di Marco Caselli