satchmoIl TRENO ha sempre avuto uno spazio privilegiato nell’immaginario del popolo afroamericano, che ha spesso utilizzato il riferimento al treno stesso, e al viaggio in ferrovia, nel repertorio delle immagini e delle metafore del blues. Per citare un titolo, probabilmente noto anche ai non addetti ai lavori: “Honky Tonky Train Blues” di Mead Lux Lewis (1927), un solo di pianoforte in stile boogie woogie che replica, nell’altalenante linea di accompagnamento sul registro basso, l’andamento sconnesso di un trenino di qualche linea secondaria, o periferica. Anche il “2.19 Blues”, inciso da Louis Armstrong il 27 maggio del 1940 https://www.youtube.com/watch?v=FdnIanf1L5g e a cui questa riflessione è dedicata, ha come fonte d’ispirazione il treno, che è in questo caso simbolo di abbandono, nostalgia, rimpianto, speranza.

Number Two Nineeten brought my baby away
The Two Seventeen will bring her back some day…

Ne esiste anche una versione molto pregevole di Jelly Roll Morton (piano e vocale) intitolata “Mamie’s Blues” dal nome della pianista e cantante Mamie Desume, che lo ha composto.

Ma torniamo a noi, ergo torniamo a lui.

Che lui, Louis “Satchmo” Armstrong, nato a New Orleans il 4 luglio del 1900, sia tra i personaggi più importanti, uno degli emblemi e delle più fulgide rappresentazioni iconiche della musica jazz, non ci possono essere dubbi e un suo disco non poteva mancare in questa personale rassegna, a metà tra nostalgia e rievocazione.

Allo stesso modo di altre scelte che ho maturato, anche in questo caso qualcuno potrebbe obiettare che ci sono dischi di Armstrong più importanti e celebrati. Come no, certo. Ma in questo caso particolare, il motivo che di
per sé giustifica l’inclusione di questo brano, tra i miei dischi della vita, ha un valore che potrei perfino definire storico: “2.19 Blues” è stato il mio primo disco in assoluto a 78 giri. Sul retro portava un altro brano inciso nella stessa seduta, Perdido Street Blueshttps://www.youtube.com/watch?v=NqBgap8Kgms . Nel mio privato cenacolo di jazzfans adolescenti, prevalevano orientamenti più inclini al jazz moderno, al bebop o al cool jazz: ma per Armstrong eravamo tutti disposti a trasformarci in tradizionalisti. Chissà in quale occasione quel disco sarà mai andato in mille pezzi, com’era ineludibile destino dei 78 giri? Ma io ancora mi ricordo l’etichetta. Può bastare, confido, questa memoria lontana, a giustificare la scelta di un disco peraltro molto meritevole.

Al momento dell’incisione Armstrong, alle soglie dei quaranta anni, ha già prodotto I suoi capolavori più celebrati e attraversato esperienze straordinarie in sala di registrazione: dagli esordi come seconda tromba nel bruciante collettivo senza respiro della Creole Jazz Band di King Oliver (1923), allo splendore solistico dei suoi Hot Five e Hot Seven (1925-1927), alla maestosità senza tempo dei secondi Hot Five del 1928. Poi la lunga serie di incisioni con grandi orchestre che rappresentarono la sua consacrazione anche come showman. Più tardi, a partire dal 1950, la formazione degli “All Stars” un gruppo regolare che ripropose la formula della tradizionale front line del jazz di New Orleans: tromba, trombone e clarinetto.

Già nel nostro disco c’è un’anticipazione importante di questo ritorno alla tradizione: si abbandona la big band (che esegue arrangiamenti scritti) e si recupera la strumentazione a tre fiati che favorisce (impone) il largo ricorso all’improvvisazione. Per la verità in 2.19 Blues c’è una differenza in apparenza piccola ma nella sostanza molto rilevante: al posto del clarino, c’è il sax soprano. Ma quello che conta è il nome del musicista che lo suona: Sidney Bechet, un altro grande maestro del jazz di New Orleans, che con Armstrong aveva preso parte a qualche incisione storica con i Clarence Williams Blue Five del 1923. Oltre a Bechet l’onesto e affidabile Claude Jones al trombone, Luis Russell al piano, Wellman Braud al basso, Bernard Addison alla chitarra e Zutty Singleton, compagno di Armstrong nelle incisioni con gli Hot Five del 1928, alla batteria. Come scrive Hugues Panassié (critico francese appassionato fautore del jazz della tradizione e nemico acerrimo di ogni forma di modernismo fino al fanatismo più intransigente) nella sua monografia dedicata a Louis è molto gradevole ascoltare di nuovo Louis, insieme a grandi musicisti di New Orleans: dopo gli Hot Five non aveva più avuto occasione di incidere dischi d’improvvisazione collettiva”. Già, perché l’improvvisazione collettiva (qualche critico preferisce definirla polifonia estemporanea) è proprio una delle caratteristiche fondamentali di questo stile jazz primigenio

Ecco allora, partiamo: è un blues preso a tempo lento, malinconico e abbandonato, molto low down: inizia con due colpi della grancassa di Singleton che scandiscono il tempo dell’esecuzione. La struttura del brano è molto semplice: il primo chorus è dedicato all’esposizione del bel tema da parte del trio dei fiati: Armstrong appare rilassato, disteso in tutta la sua superba maturità, non una nota di troppo, nessuna concessione, nessun compiacimento. Bechet al soprano e Jones al trombone lo sostengono con affascinanti controcanti, arabescati commenti, svarianti sfondi sonori.

Poi c’è l’indimenticabile parte vocale di Louis che si estende per due chorus. La voce di Armstrong, come tutti sanno, è quanto di più lontano sia possibile immaginare dai canoni del bel canto: velata, roca e poderosa, carica di feeling, con uno swing senza confronti. Qui, nel nostro disco, si mantiene lontano da effettismi, confermando la sua maestria nell’interpretazione del blues e operando una sorta di trasferimento nel canto del suo stile di trombettista. Un’altra caratteristica del suo approccio vocale (non rappresentata nel disco che stiamo commentando, ma non si può fare a meno di ricordarla) era quella del cosiddetto canto scat vale a dire un canto senza parole, articolato su una successione ritmica di sillabe improvvisate e perfettamente calibrate. Ebbe grande successo come cantante, perfino troppo direi, se non avessi timore di risultare blasfemo: mi limito a ricordare che gli toccò perfino cantare al Festival di Sanremo. La canzone si intitolava Mi va di cantarehttps://www.youtube.com/watch?v=j6FUMIemRKs: lui non aveva capito bene la formula della manifestazione, credeva che fosse un concerto come gli altri e dopo che ebbe finito, la sua canzoncina voleva restare al microfono, cantare ancora, suonare ancora. Lo portarono pian piano dietro le quinte, tra gli applausi e lui sorrideva, incredulo, forse
imbarazzato.

… Meglio tornare a 2.19 Blues

Dopo il canto, è la volta di Sidney Bechet al sax soprano: imperioso, infuocato, immaginifico. Un grande solista, barocco e di straordinaria ricchezza melodica. Poi di nuovo il collettivo orchestrale a recuperare, in conclusione, il tema.

Un gran bel disco, è già ora di riascoltarlo se volete: ecco i due colpi della batteria … one … two, si parte. Intanto vado a riguardarmi il libro di Panassié, ecco qui: a pagina 170 parla di 2.19 Blues e lo definisce… aspetta… ecco qui “un chef d’oeuvre”.

JazzFranco Carobbio

 

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