Ci sono allestimenti in cui il minimale viene sublimato nell’assenza di qualsivoglia elemento, per precisa scelta stilistica. Al Teatro Olimpico di Vicenza la scenografia era demandata in toto al genio di Andrea Palladio e alla fuga prospettica dello Scamozzi. La decisione potrebbe risultare scontata, altresì comprensibile quando ci si trovi a interagire con un luogo cinquecentesco bello e intoccabile, che esso solo svolge una funzione spettacolare tra le più suggestive al mondo, sottolineata dalle luci didascaliche di Andrea Grussu. Pure le gradinate che accolgono il pubblico, numeroso in entrambe le repliche, erano assurte a spazio scenico nella regia idealizzata di Cesare Scarton, che ha rispettosamente eletto a protagonista incontrastata della serata la Musica, come era giusto che fosse.
Il festival “Vicenza in lirica” nell’edizione 2018 ha regalato la sua chicca, una delle tante cui ha abituato il direttore artistico Andrea Castello: la prima esecuzione assoluta in tempi moderni dell’opera “Polidoro” di Antonio Lotti, compositore oggigiorno relegato in ombra ma che all’epoca occupava un posto al sole, le cui invenzioni musicali ispirarono molti contemporanei e successori, da Vivaldi a Händel a Bendetto Marcello e per via indiretta Bach, per citarne solo alcuni. L’ultima rappresentazione di Polidoro risaliva al 1714 a Venezia. Epoca rievocata nei costumi di foggia settecentesca di Giampaolo Tirelli, omonimo della celebre sartoria con la quale gareggia in qualità, che essi soli hanno sfarzosamente guarnito lo spettacolo. Allora sul podio, e probabilmente al clavicembalo, era lo stesso Lotti. L’attuale direzione e la concertazione sono state affidate alla bacchetta di Francesco Erle, ultimo atto di un lavoro durato mesi svolto assieme a Franco Rossi sul manoscritto conservato a san Pietro a Majella, e sfociato nell’edizione critica qui eseguita che, tra l’altro, ha ingegnosamente e con risultati ottimi sopperito alla mancanza di codifica del continuo. Sotto la guida di Erle l’orchestra barocca Vicenza in Lirica ha svolto una prova ricercata e raffinata, di elegiaca ariosità mai disgiunta dal rigore filologico e dalla rispondenza alla prassi esecutiva antica. Lo sfoggio di aperture poetiche, il suono ispirato all’originaria tavolozza espressiva, l’appassionata ricerca della linea stilistica e la cura premurosa, da pater familias, riservata al giovane cast, fanno di Erle uno dei più validi interpreti di questo genere nel panorama odierno.

Il cast era frutto di una selezione, e successivo laboratorio, che ha visto giungere partecipanti da tutta Europa, e che ha prodotto frutti misurabili nella freschezza delle voci, specificità necessaria a una partitura di altrettanta effervescenza melodica, uniti alla maturazione artistica indispensabile ad affrontare tale cimento impegnativo, oneroso anche dal punto di vista della scansione caratteriale dei personaggi. Nella “tragedia per musica” che attinge alla mitologia di Polidoro e Deifilo, di Polinestore e della moglie Iliona figlia del re di Tracia Priamo, prolificano gli intrecci. Due fratelli si trovano con le identità scambiate ma alla fine trionfano i buoni sentimenti, nelle figure che il libretto di Agostino Piovene scandisce nettamente: il tiranno ha sete di potere, la madre è identificazione dell’amore protettivo, l’eroe possiede animo nobile. Tutti, nel loro ambito, sono intellettualmente onesti, peculiarità emersa nell’espressività vocale, nel fraseggio che ha tratto linfa dal dettato rigoglioso decorato da virtuosismi e infiorettature.
L’agilità ha caratterizzato le tre voci barocche: il sopranista Federico Fiorio, Polidoro a proprio agio in tutta la gamma, comprese le note più alte sul pentagramma eseguite con fluida duttilità; e i due controtenori Enrico Torre, Pirro, dalla linea stilistica curata e morbidezza di emissione; e Danilo Pastore che ha risolto egregiamente, con grazia, il ruolo di Deifilo. Di spicco il basso-baritono Davide Giangregorio, Polinestore, dagli importanti mezzi vocali sontuosamente padroneggiati; e il baritono Patrizio La Placa, Darete, dal timbro affabile intriso di nobiltà. Infine la vocalità potente e omogenea di Anna Bessi, Iliona di una tragicità fattasi, con sapienza drammatica, impetuosità di sentimento; e Maria Elena Pepi, sensibile Andromaca cinta da un velo di mestizia.

Recensione Maria Luisa Abate

Visto al Teatro Olimpico di Vicenza il 7 settembre 2018
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