Well, it has to be optimistic. Well, all right, why is life worth living? That’s a very good question. Um, well, there are certain things – I guess – that make it worthwhile. Uh, like what? Okay. Um, for me…oh, I would say….what, Groucho Marx, to name one thing..ah ummmm and Willie Mays, and hum, uh, the second movement of the Jupiter Symphony, and ummmm Louis Armstrong recording of “Potato Head Blues”… umm, Sweedish movies, naturally…”Sentimental Education” by Flaubert…uh, Marlon Brando, Frank Sinatra…ummm, those incredible apples and pears by Cezanne, uh..the crabs at Sam Woo’s…Tracy’s face…

(Da Manhattan, di Woody Allen 1979)

L’avete visto, vero?, “Manhattan” di Woody Allen: se no, provvedete subito, è un ordine. Il monologo riportato in epigrafe è tratto da quella memorabile pellicola. Nella versione italiana, il nome di Willie Mays, una stella del baseball USA, è stato sostituito da quello più famigliare del paisà Joe Di Maggio, famoso per meriti sportivi e matrimoniali. Tracy è la ragazza di Allen. Ognuno ha nel proprio cuore un elenco di cose per cui la vita merita di essere vissuta: per Woody, dunque, c’è tra queste il “Potato Head Blueshttps://www.youtube.com/watch?v=uXH2w3dWnrs di Louis Armstrong. Non so nulla dei granchi di Sam Woo’s, ma su quel disco metterei la firma anch’io e anche su Flaubert, Mozart e Cezanne. Ma torniamo a Armstrong e a un altro legame che la mia memoria intreccia attorno a quel disco. Sì perché “Potato Head Blues” era anche la sigla di apertura degli incontri che il Circolo del Jazz di Mantova teneva alla Sala Aldegatti di via Chiassi, nei lontani anni ‘50. Io seduto tra gli altri sulle seggiole allineate; dietro al tavolo dei relatori, su cui troneggiava un giradischi portatile, i miei amici Max, Roberto, Luciano o chi altri a commentare i dischi scelti per quella specifica audizione. I temi variavano, ma la musica introduttiva era sempre quella a cui, dopo alcune battute andava a sovrapporsi la voce del presentatore: “Il Circolo del Jazz di Mantova dà il benvenuto agli intervenuti all’incontro di stasera…”.

Potato Head Blues, è stato registrato a Chicago 10 maggio 1927: i Louis  Armstrong Hot Seven” https://www.youtube.com/watch?v=544wGNkZcm8 comprendono oltre ad Armstrong (ventiseienne) che ha definitivamente abbandonato la cornetta a favore della tromba (più potente ed espressiva), John Thomas al trombone, Johnny Dodds al clarinetto, Lil Armstrong al piano (moglie di Louis e assolutamente inesistente come pianista), Johnny St. Cyr al banjo, Peter Briggs al bassotuba e Warren “Baby” Dodds alla batteria. In verità c’è solo una parte della batteria: i tecnici del suono non erano in grado di registrare convenientemente la grancassa e quindi “Baby”, fratello minore del clarinettista Johnny, è costretto suo malgrado a limitarsi al tamburo e ai piatti. Poco male, la qualità della musica non sembra proprio risentirne.

È un periodo di transizione per Louis, verso la completa maturazione che si esprimerà compiutamente l’anno dopo con i secondi e acclamatissimi “Hot Five”. Io però avevo una passione speciale per gli “Hot Seven”, che presentano un orientamento verso lo stile New Orleans più marcato e originario e realizzano un magico irripetibile equilibrio tra parti collettive e escursioni solistiche. Non tutti i critici sono d’accordo: Gunther Schuller ritiene che le sedute degli Hot Seven che pure considera “largamente sopra la media” siano state “un po’ sopravvalutate” e avanza l’ipotesi che il peso dello straordinario successo personale di Louis cominciasse a farsi sentire  e lo inducesse a spingersi forse al di là delle sue possibilità. Ma attenzione, aggiunge: “il suo chorus stop-time di Potato Head Blues è la sola grande impresa di Armstrong” in questa serie .

Il nostro disco illustra in modo perfetto questa situazione di miracolosa, magica compresenza. All’inizio il tema è esposto  in una improvvisazione collettiva di apparente semplicità, una polifonia estemporanea dei tre strumenti a fiato (tromba, trombone, clarinetto). Provate a riascoltarla: se al primo ascolto sarete portati ad apprezzare l’evoluzione della linea melodica o la vivacità del ritmo, al secondo vi prego di concentrarvi proprio sull’intreccio delle tre voci, sull’intesa quasi miracolosa che questi strumentisti riescono a trovare, sulla solida parte di Louis, i sonori glissando del trombone, il ricamo audace e le passamanerie del clarinetto che sembra ondeggiare melodiosamente nello spazio. Il tutto con una grazia e un’eleganza nativa, ingenua e raffinata al tempo stesso e con la freschezza propria della musica improvvisata.

Segue un ritornello per la tromba di Louis in assolo e un vibrante assolo per il clarinetto di Dodds, che sembra trovarsi a proprio agio in questo canovaccio blues. Ma il bello deve ancora venire: dopo un Interludio di banjo che funge da perfetta prefazione, parte la tromba per una delle escursioni più avventurose e ardite della storia del jazz classico. E’ un solo costruito in modo inusuale: una serie di breaks, cioè di brevi frasi improvvisate e senza il sostegno e la pulsazione regolare della sezione ritmica che si limita a scandire il tempo all’inizio di ognuno dei breaks. Non sai cosa ammirare di più: l’inventiva, la freschezza, l’audacia. In alcuni passaggi ci viene naturale chiederci quasi “Ce la farà?”: si sente chiaramente che Armstrong fa appena in tempo a seguire i cambi di accordo e in diversi punti della seconda parte del solo ha istanti di leggera esitazione. Ma vista l’arditezza dell’assolo una certa fatica e qualche indizio di umana fallibilità sono comprensibili e in qualche modo avvicinano noi ascoltatori all’uomo e al musicista. Alla fine della sequenza ti rimane la sensazione che se non fosse per il limite dei tre minuti di durata imposto dal disco a 78 giri, Armstrong avrebbe potuto andare avanti per parecchi ritornelli ancora.

Hugues Panassié nel suo volume dedicato a Armstrong non usa mezze misure: “Questo solo non è soltanto una semplice sequenza di breaks folgoranti, ma anche uno sviluppo melodico coerente: ciascuna frase è il seguito logico di quella precedente. Ciascuna di queste frasi ha alimentato l’ispirazione di centinaia di musicisti … Pagine e pagine non basterebbero a elencare tutto quello che nel jazz proviene dallo stop-chorus di Potato Head Blues”.  E John Chilton  ribadisce: “ecco l’assolo perfettamente strutturato: i musicologi restano affascinati dalla trascrizione su carta ma non si potrà mai rappresentare sul pentagramma la bellezza del tono e l’espressività del vibrato”. E ancora Robert G. O’Meally: “Sottolineando l’importanza della tradizione di eleganza nella cultura Afro Americana, Ralph Ellison disse a un intervistatore che se la meditazione di Armstrong su Potato Head Blues non è marcata dall’eleganza, allora la parola ‘eleganza’ è troppo inelegante per definire l’accurata fattura, la magistrale padronanza delle sfumature, il buon gusto assoluto della elaborazione melodica e del ritmo, il suo stile”. 

Procuratevi allora “Manhattan”: visto che il Circolo del Jazz ha chiuso i battenti da molto tempo e che in ogni caso utilizzerebbe probabilmente, se fosse ancora attivo, un’altra sigla introduttiva per le sue serate, non resta che valorizzare, come introduzione all’ascolto, la lista delle cose per cui val la pena vivere secondo Woody Allen. Ma soprattutto ascoltate la musica. Magari lo stop chorus di Louis potrebbe trovare un posto, chissà, anche nella vostra lista personale.