Gli anni passano, gli spettacoli restano. Non tutti ma solo quella minoranza che riesce a rinnovare il proprio successo, a riscuotere consensi allargandosi a nuovi pubblici, a generare ogni volta nuove e diverse emozioni. Era stracolmo di spettatori il Teatro Romano di Verona per “La musica è pericolosa”, nonostante il clima pazzo di quest’anno. Tanto che Nicola Piovani ha più volte scherzato sulla recita «estiva-invernale», da concludere «prima che su di noi cali la brina».

Con tono colloquiale, da cordiale affabulatore, Piovani ha ripercorso – peregrinando avanti e indietro in proscenio – le tappe di una vita straordinaria costellata da straordinari incontri, proponendone una cronaca garbata, priva di toni autocelebrativi. Parole e melodie sul palco, volti e immagini sullo schermo a formare quello che il sottotitolo correttamente definiva concertato. Una digressione dai voli pindarici che hanno trovato concatenazioni logiche quando inseriti nel contesto dell’eccezionalità, condivisa assieme a tanti amici come Mastroianni, la cui voce è risuonata registrata, o Milo Manara i cui disegni hanno accompagnato le evocazioni. Una carriera che non sarebbe stata possibile senza quel vivace processo creativo che la proposta teatrale ha aiutato a comprendere. Una genialità precoce spuntata nel corso della giovinezza, quando durante la villeggiatura estiva in un paesino vicino Roma il piccolo Nicola accorreva a sentire la banda, restando colpito dal periodo dell’attesa in cui la musica si intuiva nell’aria, proveniente da lontano, a preannunciare l’esplosione sonora che sarebbe avvenuta di lì a poco. Stesso concetto poi utilizzato per comporre l’entrata in scena per Benigni. O ancora quando, sempre bambino, nell’abitazione romana di Via Sebastiano Veniero, le giornate erano scandite dal suono delle campane di un vicino convento: il ripetersi di tre note, mi fa sol, diventate la base per la Storia di un impiegato cantata da De André.  

«Come possono due-note-pausa-due-note avere la capacità di sgretolarmi di emozione?» si chiedeva Fellini, il quale era talmente sensibile alla musica da evitare di ascoltarla se non per ragioni di lavoro, perché questo, diceva, gli faceva da scudo contro le “radiazioni” da essa emanate. E che una volta insistette per utilizzare un brano già edito, sostenendo che non importava se la situazione fosse inelegante. Le sedute con Fellini erano lunghe, invece Monicelli andava velocissimo: se la proposta gli piaceva era un si, altrimenti se ne andava.
La musica è pericolosa perché spalanca la porta a quella bellezza che coincide con l’amore. Incontri profondi, che ti cambiano, che non ti fanno più essere quello di prima, ti inquietano, ti danno un brivido capace di scuoterti e ogni volta ti suscitano il medesimo gioioso stupore, lo stesso batticuore adolescenziale. Il pericolo di vivere, ha detto Piovani, è accettare il rischio di cambiare, di mettersi in discussione dentro. Senza questa pericolosità la vita sarebbe più tranquilla, ma sarebbe anche una situazione di “premorienza”, come la chiamano gli assicuratori.

Il tragitto della serata è passato attraverso Prokof’ev, Chopin e Debussy, trascritti in giovane età per farli suoi, per impossessarsene e che hanno ricordato che il vincitore del Premio Oscar oltre a essere compositore è direttore e valente esecutore. Una mano sui tasti del pianoforte, l’altra protesa in un cenno direttoriale verso l’ensemble, raffinato ed eclettico, dal sound intimo e discreto al pari del racconto. Marina Cesari, Pasquale Filastò, Ivan Gambini, Marco Loddo, Rossano Baldini hanno seguito il Maestro attraverso nostalgici medley, attaccato colonne sonore venate di malinconia e improvvisamente le hanno animate di gioiosità jazz, di rigogliosità orchestrale. Piovani è un novello Orfeo, che incarnava egli stesso la musica ed era inseparabile dalla sua cetra. Tanto che quando le Menadi lo uccisero e ne gettarono i resti nel fiume, la sua testa mozza continuò a galleggiare appoggiata allo strumento e regalò canti bellissimi ai fiori sulle rive. Le parole non contano, conta l’amore. O, non fa differenza, conta la musica, girando attorno a una canzone scritta con Cerami e Benigni il cui finale codificò quella che era nata come una boutade, come un verso risibilmente scontato.  

«Ero un impiegato alla Rai. Poi un giorno una canzone vince l’Oscar e cambia la vita». Già. Come fa l’amore. O come fa la musica. Uno dei bis non poteva che essere riservato a “La vita è bella”. Infine, come un marchio di fabbrica, la lode alla forma di spettacolo dal vivo: in contrapposizione a un detto consumistico che vuole non esistere ciò che non passa in televisione, Piovani si è rivolto al pubblico ringraziandolo «per le due ore di inesistenza trascorse assieme».

Recensione di Maria Luisa Abate

Visto al Teatro Romano di Verona – Festival della Bellezza, il 30 maggio 2019
Contributi fotografici: MiLùMediA for DeArtes