Attori straordinariamente bravi in un allestimento focalizzato attorno alla regia, ricca di spunti, contenuti e citazioni. Un linguaggio espressivo complesso tuttavia subitamente comprensibile: merito non comune. Il 71° Festival Shakespeariano, nell’Estate Teatrale Veronese, ha inaugurato con La Tempesta nell’adattamento e regia di Luca De Fusco; spettacolo debuttato pochi giorni prima a Pompei.
Lo spazio aperto dell’isola del naufragio narrato da Shakespeare diventa l’ambito circoscritto di una libreria/fortezza zeppa di tomi ingrigiti. Prospero è l’elegante bibliotecario e afferma essere i libri più preziosi del proprio regno, che gli è stato usurpato dodici anni prima. Egli tratta i nuovi venuti nell’atollo letterario come personaggi di una propria commedia, da giostrare a piacimento. Soggetti scaturiti dalla fantasia, dai volumi che qui assumono la stessa funzione del classico baule teatrale da cui fuoriescono i costumi. La libreria è la casa che Prospero, con arti magiche affinate dalla conoscenza, dal sapere umanistico, ha edificato attorno a sé: un rifugio dove lasciare libera la mente.

Eros Pagni dà a Prospero microfonata voce con linearità di accenti, sinonimo della desolazione derivante dai lunghi anni di lontananza dal mondo. Ariel, anziano maggiordomo, fa il suo ingresso in scena creando un varco attraverso i volumi con l’ombrello aperto per ripararsi dal fortunale. Ariel e Calibano, l’essere etereo e quello selvaggio, sono un’unica persona, la straordinaria Gaia Aprea, che indossa una maschera dalle identiche sembianze di Prospero, di cui diventa speculare, riproducendone i movimenti come dinanzi a uno specchio. Prospero interloquisce con i frutti della sua immaginazione rivolgendosi in realtà al proprio io, in un monologo freudiano che esso stesso è lacrimevole tempesta, aspetto su cui si focalizza la traduzione di Gianni Garrera.

Al di sopra degli scaffali, una galleria pittorica novecentesca, con volti e mezzi busti che mutano e prendono vita per i trucchi magici del padrone di casa. Le immagini, nei video di Alessandro Papa, si sovrappongono ai personaggi catapultandoli in un’altra dimensione, facendoli naufragare nell’ambito del soprannaturale. Il sembiante e il linguaggio sia di figure virtuali sia in carne e ossa, pur invariati, risultano diversi perché a mutare è il contesto, differente è l’ottica da cui guarda lo spettatore e di conseguenza la sua percezione, in un ulteriore gioco di rimandi.
Il tema della parola scritta, fonte di conoscenza e creatrice di simulacri umani, torna a mostrarsi nell’incontro tra Ferdinando e Miranda, Gianluca Musiu e Silvia Biancalana. Simboli d’innocenza e purezza, si parlano palleggiando pagine accartocciate in un surreale incontro di tennis che scandisce il ritmo della narrazione teatrale. O ancora il gruppo di naufraghi, intenti ai leggii a strappare e gettare via i fogli appena declamati: Alonso Carlo Sciaccaluga, Antonio Paolo Serra, Sebastiano Paolo Cresta, Gonzalo Enzo Turrin, ai quali si aggiungonoFrancisco Alessandro Balletta e Adriano Francesco Scolaro.  
Il flusso e riflusso di elementi scenografici tradizionali ed altri di derivazione tecnologica trova riscontro nei costumi, entrambi di Marta Crisolini Malatesta. Uno studiato pastiche di epoche frutto dell’affiorare, in Prospero, di reminiscenze culturali che, dal tempo dell’attesa, traghettano la situazione in un tempo in movimento, in scorrimento come la pedana mobile che conduce in scena i personaggi.

Lo stile descrittivo muta nuovamente con gli ubriachi Trinculo Alfonso Postiglione e Stefano Gennaro Di Biase, che improvvisano un numero da sceneggiata napoletana, da cantanti neomelodici sulle musiche originali di Ran Bagno. E Giunone, Alessandra Pacifico Griffini, platinata e sinuosa come Marilyn Monroe ma sospirante come una più nostrana Minnie Minoprio, discende dai gradoni dell’anfiteatro.
La tempesta diventa un ritmico sgocciolio di sottofondo e la libreria riflette il cielo stellato che segna la pacificazione del fortunale. Mentre il protagonista, nel celebre epilogo, chiede al pubblico di tributare un applauso all’”inutile evanescenza dello spettacolo”, la fortezza letteraria sparisce inghiottita dai flutti. Resta, nella sua inconsistenza, il sogno: quella sostanza di cui, dice Shakespeare, sono fatti gli esseri umani. Dopo tanto immaginare, il fastigio della mente.

Recensione di Maria Luisa Abate

Visto al Teatro Romano di Verona il 29 giugno 2019