Che la vicenda dei più celebri innamorati della storia si svolga a Verona lo si deduce da un cartello stradale che indica il breve chilometraggio verso Mantova, rifugio del fuggitivo Romeo. Tra i bidoni della periferia cittadina, monta l’instabile tenda una compagnia di girovaghi scalcinati, anch’essi “Nati sotto contraria stella” proprio come Romeo & Giulietta. Il sottotitolo tratto dal prologo shakespeariano accomuna l’incapacità degli uni, al destino avverso degli altri. La scena, di Carla Ricotti come i costumi, è strutturata secondo i canoni della commedia dell’arte, ossia con la ribalta al centro delimitata dalle luci e ai lati, a vista, il dietro le quinte: sulla sinistra un camerino dove siede il direttore di scena, impersonato da Paolo Graziosi; sulla destra, in penombra, Roberto Zanisi alla chitarra regala atmosfere di qualità spazianti dal rock alla lirica, innestandosi sulle musiche originali di Dario Buccino.

Il presupposto di attorucoli da strapazzo, scalcagnati e attempati, smemorati e balbuzienti, che si cimentano con un capolavoro immortale non tradisce Shakespeare che nutriva una predilezione per i carrozzoni itineranti, elemento principe del fare teatro nel Cinquecento: vedasi ad esempio l’incipit de La bisbetica domata. Il Bardo usava un linguaggio allora molto accessibile sia al pubblico delle corti che popolare, farcito di modi di dire e doppi sensi, anche grotteschi, allo scopo di divertire. Parimenti accade in questo spettacolo, che il Festival Shakespeariano veronese – uno dei più importanti in assoluto – nell’intento di rivolgersi a un target di fruitori vasto ed eterogeneo ha ospitato al debutto in prima nazionale, nella versione con il nuovo cast capitanato dal duo Ale e Franz che ha rinnovato l’allestimento risalente a quattordici anni fa.

 «Il nostro compito – dicono gli attori nei panni degli attori – è raccontare, anzi massacrare storie». Poi spiegano così il loro mestiere: «Cosa fa un uomo in piedi su una sedia? Fa sapere che esiste e che su quella sedia può stare in bilico. A noi non serve essere capiti, basta essere ascoltati». In questo esordio, che preannuncia due ore di spensierato intrattenimento, sta tutto il significato dell’operazione. Che non ambisce a paragoni ma con naturalezza, con schiettezza, con genuinità suggerisce una tra le tante possibili chiavi di lettura non solo del dramma shakesperiano ma anche del teatro. Nello specifico, del teatro quando mette in scena se stesso. Forse, come annunciato, un massacro, ma con leggerezza e con senso logico.

Un’operazione quindi, per la regia e drammaturgia di Leo Muscato (un nome una garanzia), che pare dissacrante senza esserlo. Ale e Franz, all’anagrafe Alessandro Besentini e Francesco Villa, così come l’intero cast dai plurimi ruoli – Eugenio Allegri, Marco Zannoni, Marco Gobetti, Roberto Zanisi – scherzano, sono autoironici, si prendono in giro, giocano con le situazioni e le parole: per la maggioranza originali, anche quelle che non lo sembrano. Similmente a quanto avveniva nel teatro elisabettiano, che raramente era codificato e non lo era nel caso di Shakespeare, usano le peripezie degli infelici amanti come canovaccio su cui ricamare un proprio racconto, per bocca dei guitti incapaci e pasticcioni, che battibeccano però poi si sostengono vicendevolmente. Ale e Franz si avvalgono del più classico dei repertori comici: dal cantare stonato, a Romeo (Franz) che soffre di alitosi, a Giulietta (Ale) devastata dall’alopecia che sotto al tutù da ballerina indossa la maglietta della salute e svolazza goffamente sotto un vezzoso ombrellino a coccinella. Anche nel teatro elisabettiano i ruoli femminili erano ricoperti da uomini. Allora, per obblighi di legge, nel presente caso per boutade capace di scatenare la facile risata.

La garbata semplicità, la studiata e sottolineata fuggevolezza sono i punti di forza di questo spettacolo che dal comico, sottilmente, vira verso il tragico. Manca, forse volutamente, un contraltare; un cambio di registro recitativo tra i lazzi ironici e i versi del genio di Stratford-on-Avon. Peraltro, sotto un certo punto di vista stonerebbe, facendo crollare la premessa metateatrale di una compagnia di attori/personaggi cani. Gli attori/interpreti restano saggiamente entro il loro ambito d’elezione: un genere nazional popolare colto e di grande dignità, lo stesso cui diedero nobiltà i Totò e i Peppino. Dimostrando, parimenti alle figure alle quali danno vita, che per fare un balcone basta un lenzuolo e che la luna è un pallone appeso a un filo. Per ricreare la magia del teatro, in fondo, come insegna Shakespeare, sono sufficienti la fantasia e un pizzico di vagheggiata poesia.

Recensione di Maria Luisa Abate

Visto al Teatro Romano di Verona – Estate Teatrale Veronese – 71° Festival Shakespeariano – il 19 luglio 2019

Contributi fotografici: © Yasuko Kageyama e dell’Estate Teatrale Veronese