Tosca, in uno degli allestimenti di Hugo de Ana meglio riusciti, è l’ultimo titolo della stagione areniana, in scena fino al 6 settembre 2019. Simbolismo, tinte scure, atmosfera intimistica e spiccata drammaticità sono gli elementi che il regista scenografo costumista e curatore delle luci ha magistralmente miscelato fin dalla prima edizione del 2006, con sapienza teatrale e salvaguardando quella grandiosità di cui l’anfiteatro necessita: conciliare due dimensioni opposte come interiorità e spettacolarità non è impresa da poco.

Focalizzata sui personaggi e sulla loro psicologia, la concezione registica ha unito amore, politica, religione suscitando il medesimo impeto passionale espresso dalla musica di Giacomo Puccini.
La grande testa dell’Arcangelo Michele, una volta caduto il drappo che la copriva, ha evocato Castel Sant’Angelo: una mano intenta a impugnare la spada, che si è abbassata nell’ultimo atto dando compimento a giustizia le sue sacre armi depose”; l’altra mano stretta a reggere un rosario in seguito rimosso, quando la chiesa, intesa come istituzione, ha raggiunto il culmine della propria devianza. Nel Te Deum i porporati in processione e affacciati ai finestroni, aperti con coup de theatre sulla parete di fondo, avevano i volti mummificati o ridotti a teschi dal processo di deterioramento spirituale.

Al posto del fumo dell’incenso, la polvere sollevata dai veri colpi di cannone ha portato nella chiesa di Sant’Andrea della Valle gli echi delle battaglie napoleoniche e del patriottismo durante la Prima Repubblica Romana.
Nel libretto che Illica e Giacosa attinsero al romanzo di Sardou, e nelle sublimi pagine pucciniane, si trova la contrapposizione tra eros e thanatos, tra arbitrio del potere e brama di “prede” amorose da “ghermire”.

E si trova nitido l’autoritarismo del Barone Scarpia, capo della polizia papalina che esercita il proprio ruolo distortamente, mediante inganni, torture, uccisioni. Al suo ingresso, egli ha fatto rumorosamente cadere il dipinto che Cavaradossi stava completando, calpestando assieme alla tela anche il sentimento d’amore di cui intendeva appropriarsi.
Nell’ultimo atto Cavaradossi è morto fucilato, legato a una croce. Invece Tosca, devastata dal dolore e sentendosi braccata, anziché lanciarsi dai bastioni della fortezza è ascesa al cielo sulla testa dell’Angelo, brandendo un crocifisso. A lei, de Ana ha affidato la missione di ricondurre il sentimento religioso a fe’ sincera d’elevata purezza. 

La ricerca chiaroscurale del podio si è estesa ai tempi, al fraseggio vivace, alle dinamiche splendidamente policrome che hanno reso giustizia al dettato pucciniano. Infatti Daniel Oren, alla guida dell’orchestra areniana in ottima forma, possiede una simbiotica padronanza degli spazi e dell’acustica dell’anfiteatro, acquisita in ben 500 recite.  

Hugo de Ana tempo fa sottolineava che i costumi sarebbero rimasti gli stessi negli anni a venire, ma sarebbero stati indossati da interpreti diversi. Con ciò intendendo che l’impostazione registica fosse predisposta fin dalla nascita a mutare assieme ai protagonisti. Della poliedrica caratterialità di Floria Tosca, Saioa Hernández ha privilegiato l’indole combattiva di chi ama avere il controllo di ogni situazione. Una donna volitiva e indomabile perfino da parte del suo innamorato, dai modi decisi e risoluti che si sono rispecchiati nella scelta estetica della linea di canto, nei sontuosi mezzi vocali espressi con temperamento, nel timbro che, negli acuti ottimamente dispiegati, ha assunto un appeal ferino, acquietatosi per la riflessione “Vissi d’arte…”.  

Una certezza la vocalità calda, pastosa, saldamente appoggiata e dalla dizione ottima di Fabio Sartori (che ha sostituito l’inizialmente previsto Yussif Eyvazov), Mario Cavaradossi fervente patriota e placido innamorato. Il tenore ha bissato con generosità di acuto e coinvolgimento emotivo E lucevan le stelle. Per quanto questa Tosca non sia rimasta soggiogata dal fascino malvagio e noir del Barone Scarpia, egli è restato il deus ex machina della situazione. Lo spietato capo della polizia aveva la solidità e la nobiltà vocale di Ambrogio Maestri. Un ruolo che il baritono conosce approfonditamente e che ha interpretato con sfoggio di accenti e colori, riuscendo a plasmare sapientemente l’espressività del canto anche sull’ambiguità, sui subdoli sottintesi che costellano il personaggio.

Sfumature calde e profonde per il giovane Krzysztof Bączyk nei panni del fuggiasco Angelotti. Nulla meno che ottimo Biagio Pizzuti a regalare un’ironia sottile e per nulla gigionesca al Sagrestano. Di rilievo le presenze di Roberto Covatta, Spoletta viscido come richiesto dal ruolo, e Nicolò Ceriani, appropriato Sciarrone. Il Carceriere era Stefano Rinaldi Miliani e il Pastorello la voce bianca (e piena!) di Enrico Ommassini, molto intonato e puntuale. Il Coro era guidato con la consueta perizia da Vito Lombardi mentre le voci bianche A.Li.Ve. istruite da Paolo Facincani hanno svolto una prova ragguardevole sotto il profilo musicale e scenico.  

Recensione di Maria Luisa Abate

Visto all’Arena di Verona il 16 agosto 2019
Contributi fotografici: © Foto Ennevi / Fondazione Arena di Verona