Occhi apertamente chiusi. Il medioconscio nell’opera di Elisa Anfuso di Angelo Crespi
“Eyes wide shut” è un ossimoro, “occhi aperti chiusi”, e se volessimo renderlo con più efficacia in italiano, introducendo un avverbio, potremmo tradurlo con “occhi apertamente chiusi”. Tipica di questa figura retorica è la frizione che si genera dall’antinomia dei due termini in contrasto e che, a sua volta, si esprime in un cortocircuito semantico perché “uno dei due componenti esprime una predicazione contraria o contraddittoria rispetto al senso dell’altro, mentre costituisce con questo una funzione sintattica”. L’ossimoro non ha certo le potenzialità evocative della metafora che, non a caso, sta agli albori della lingua ed è uno degli strumenti preferiti dal poeta, ciò nonostante se è sufficientemente “acuto” e “folle” (come suggerisce l’etimo) ha una ragione di essere; proprio per la costituzionale paradossalità produce uno stupore cognitivo che ci induce alla riflessione o, almeno, a una seconda attenta lettura.

Cosa vediamo con gli occhi “apertamente chiusi”, e se alla lettera “eyes wide” sono gli occhi spalancati, possono essere spalancati e contestualmente anche “shut”, cioè chiusi, e cosa significa questa disponibilità ampia alla chiusura, o questa chiusura così forte e intensa da essere una nuova apertura? È geniale il titolo che Kubrick scelse per un film la cui prima visione risulta stucchevole (nella sua tipologia hollywoodiana) mentre se rivisto appare un capolavoro, come d’altronde tutti i pochi che firmò il regista americano. E si comprende ancor di più la questione pensando che la sceneggiatura si limita a trasporre, pedissequamente (solo cambiandone l’epoca), una novella di Arthur Schnitzler, del 1925/26, il cui titolo originale in tedesco è un più anodino “Traumnovelle”, la novella del sogno.

Una piccola divagazione, utile per approfondire, in seguito, il discorso critico sull’opera di Elisa Anfuso che in questa mostra propone una serie di quadri di algida bellezza. In realtà, Schnitzler fino a tutto il 1924 ritiene che il racconto debba titolarsi “Doppelnov”, “Doppia novella”, poiché in esso si racconta “in un diagramma di turbamenti paralleli” la crisi dei due protagonisti, un uomo e una donna sposati, “di fronte alla enigmatica e instabile realtà dell’esistenza”. Albertine e Fridolin in una sorta di sospensione onirico-surreale immaginano e tentano di tradirsi, mettendo a repentaglio per sfida la fedeltà di coppia e la tranquillità casalinga, aprono nella loro relazione uno iato che neppure il consolatorio finale può colmare. Lo scrittore viennese in poche righe tratteggia con spietata lucidità quella “specie di territorio intermedio fluttuante fra conscio e inconscio” che egli stesso definirà come “medioconscio” (una definizione che dobbiamo tenere a mente per il proseguo).

Sulla scorta di “Doppelnovelle”, la traduzione francese e quella italiana, hanno adottato il titolo di “Doppio sogno” (“Double rêve”) che sostanzialmente è una crasi tra il primigenio “doppel” e il secondo “traum” e che precisa ancora meglio ciò che il racconto vuole indagare. La questione del “sogno” non è secondaria e su questo campo si gioca l’interesse che, in generale, l’opera di Schnitzler e, strettamente, il racconto in questione, generano in Sigmund Freud che, negli stessi anni e nella stessa città, sta affinando la sua teoria sui sogni (già incardinata nel fondamentale “Die Traumdeutung” del 1900). Il fondatore della psicoanalisi è intimorito dalla innata capacità introspettiva dello scrittore, dalla “raffinata autopercezione”, che gli permette di anticipare i presupposti, gli interessi, i risultati che di solito dovrebbero innervare una faticosa ricerca scientifica. D’altro canto, lo scrittore dubita del dogmatismo della psicoanalisi, e giudica inesatta la ferrea dicotomia tra coscienza e subconscio cara a Freud, inserendo un terzo polo, appunto il “medioconscio” che sarebbe “il territorio più enormemente esteso della vita psichica e spirituale; da lì gli elementi salgono interrottamente nel coscio o precipitano nell’inconscio”: ed è dell’arte e dell’artista precipuo compito di indagarlo.

Tutta questa lunga premessa ci è utile non solo per giustificare il titolo della mostra “Eyes wide shut”, dall’omonimo film presentato, giusto venti anni fa, nel settembre del 1999 al festival di Venezia, pochi mesi dopo la morte di Kubrick, ma anche per circoscrivere il lavoro pittorico di Elisa Anfuso. Sarebbe troppo facile e non le farebbe giustizia, limitarsi a utilizzare il termine “onirico” per descrivere le sue tele, o affiliarla strettamente alla lunga teoria dei surrealisti che sì furono meri prosecutori della psicoanalisi con altri mezzi; e neppure serve rifarsi al genere “fancy” (wonderlandiano) che precipita dal Settecento alla contemporaneità senza alcuna evoluzione in termini stilistici o contenutistici, se non l’ovvio ammodernamento del tratto. Le immagini dell’Anfuso oscillando tra reale e surreale, al contrario, rappresentano bene quel “medioconscio” caro a Schnitzler il quale aborriva l’errore di chi, invece, indugia nello scavare nelle profondità dell’inconscio più di quanto sia utile, “rovistando senza posa”.

Questa felice medietà, dona una raffinata leggerezza agli scenari dell’Anfuso che oltrepassano i contorni del reale, ma non sprofondano nei toni dell’incubo; c’è una rarefazione, una sospensione temporale, pur nella precisione del tratto iperrealista a cui la pittrice siciliana mai rinuncia, che esprime la realtà e contemporaneamente il sogno, la verità e insieme la menzogna, endiadi integranti della nostra vita e non riducibili ad unum. È come se la quotidianità, per mezzo della fantasia, venisse trasformata assumendo in parte i caratteri dello stravagante, non però dell’impossibile, e questa trasfigurazione procede per accumulazione di simboli (l’uovo, gli uccellini, i fiori, le ciliegie…), fino ad assumere le atmosfere di una pittura simbolista. Anche il colore asseconda questa connotazione simbolica, dal bianco al rosso, dall’albedo alla rubedo, senza passare per l’inquietudine fosca della nigredo, si compie il percorso alchemico dell’Anfuso fino alla “sublimazione” che, se in chimica è un’elevazione in forma aeriforme, in psicoanalisi è la trasformazione degli impulsi primitivi, così che una pulsione sessuale aggressiva – spiegherebbe Freud – viene normalizzata verso una meta non sessuale o non aggressiva.

Ecco: le adolescenti e le donne dell’Anfuso mantengono una certa carica erotica, le loro posture rivelano certi turbamenti infantili, ma nella fredda compostezza delle forme e nella pulizia della linea, nulla tracima e le sensazioni vengono incanalate, ricondotte nell’alveo di una quasi normalità. C’è ovviamente la teatralizzazione del contesto, la posa ricercata ad effetto, gli indumenti e i copricapi barocchi ricchi di pizzi e merletti, ed è scontato notare che la presenza costante dei dolci non è un tributo alla pasticceria delle terre di origine dell’artista, semmai il passaggio dall’eros alla gola, cioè dal non-possibile-da-dire al lecito-da-mostrare. A questo si aggiunge, nell’ultima produzione, il tema del doppio, tutto al femminile, che raddoppia come in uno specchio la profonda superficie esistenziale con cui si presentano le donne protagoniste della scena: Freud scriveva titubante a Schnitzler, “Io ritengo di averla evitata per una specie di timore del sosia”, e si capisce questa paura poiché la somiglianza, anzi l’identicità che di fatto sovverte e nega l’identità, spaventa e ci lascia attoniti in quanto nell’altro troviamo irrimediabilmente noi stessi.

Le ragazze bendate dell’Anfuso non sono dunque cieche, stanno guardando dentro sé stesse, e per questo devono avere occhi “apertamente chiusi” verso l’esterno, così che siano “serratamente spalancati” all’interno di loro. Sembra solo un insignificante sotto prodotto stilistico dell’ossimoro da cui abbiamo principato, ma questa volta accade sia la verità delle cose.

Angelo Crespi

C.S.
Fonte: Frattura Scomposta

ELISA ANFUSO – EYES WIDE SHUT
6 – 27 ottobre 2019

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