Una grata semicircolare sospesa a mezz’aria ha accolto le immagini dei Dogi della Repubblica Serenissima di Venezia. Un pavimento anch’esso circolare, suddiviso a spicchi, era pronto ad accogliere il consesso come in una tavola rotonda post litteram, del tutto simile a una santa inquisizione. Tale contorno di snellezza minimal ha accompagnato “I due Foscari” nel nuovo allestimento firmato da Leo Muscato, titolo inaugurale del Festival Verdi al Teatro Regio di Parma.

Un’ambientazione scenografica astratta (Andrea Belli), evocativa di un contesto e di un concetto, guarnita da pochi elementi, sovente impalpabili come i colori cangianti che hanno movimentato le tinte neutre di base (luci Alessandro Verazzi), talvolta concreti come il trono dogale, la scrivania, le catene scese dall’alto con la funzione di sbarre a rinchiudere Jacopo Foscari nella prigione; ancora, una scala/ponte su un immaginario canale della laguna, e una serie di maschere anch’esse sospese a suggerire il Carnevale declinato in toni scuri, contrastanti con la festa circense dei gondolieri, in verità parsa sopra le righe in questa specifica impostazione.

Prevalentemente neri o bianchi per le masse, i costumi (Silvia Aymonino) hanno posposto lo stile dal Quattrocento della Serenissima all’Ottocento di Verdi: lunghi trench per il Consiglio dei Dieci e la Giunta, sostituiti, al momento di chiedere giustizia, da toghe da magistrato nere e rosse. Ma si sono visti anche il “corno ducale” e un manto damascato per il Doge.

Come nel libretto attinto a Lord Byron da Francesco Maria Piave, la regia si è focalizzata su un senso della politica percepito come prioritario, sull’assunto che le regole vadano sempre rispettate anche se impositive e viziate da errori umani. Concetto che Muscato, tramite lo specchio collocato nell’ultima scena, ha condotto a una dimensione personale e privata, mettendo i singoli – attanagliati dal conflitto interiore tra dovere pubblico e amore famigliare – di fronte alla propria coscienza, con la quale fare conti talmente amari da perire di dolore. E con la morte esautorare la giustizia umana e affidarsi a quella celeste.

Paolo Arrivabeni sul podio dell’Orchestra Filarmonica Toscanini con l’ausilio dell’Orchestra Giovanile della Via Emilia, ha affrontato l’edizione critica di Andreas Giger (The University of Chicago Press e Casa Ricordi). Con fluidità dinamica e fraseggio accorto, le tinte di Giuseppe Verdi sono state rispettate nella loro cupezza, resa smaltata. In tal modo, le pagine che narrano di tristezza, di solitudine e di desolazione sono diventate affreschi della psicologia umana.  
Il migliore della compagnia di canto, al quale sono andati i maggiori consensi di pubblico, è stato Vladimir Stoyanov, Francesco Foscari, presentante una linea stilistica nobile, legati suadenti, magnifica espressività sostenuta da accenti verdiani. Solido vocalmente, il baritono ha impersonato una figura fragile, estremamente umana, commovente; un Doge vecchio e stanco, piegato sotto il peso dei propri turbamenti, schiacciato da un dramma il cui fardello porta tutto sulle sue spalle.

Il figlio Jacopo Foscari, ingiustamente accusato di un delitto mai commesso, era Stefan Pop che con dizione accurata e mezzi vocali floridi ha proposto un personaggio romantico e ribelle, rabbuiato da un angosciante presagio. Maria Katzarava, Lucrezia Contarini, si è discretamente destreggiata nelle pagine forse più impegnative di tutta l’opera, attingendo alla spiccata espressività drammatica che poi ha stemperato in strazio interiore nel chiedere clemenza per lo sposo. Soppesata, la perfidia di Jacopo Loredano che aveva il bel timbro caliginoso di Giacomo Prestia. Inoltre, Francesco Marsiglia era Barbarigo; Erica Wenmeng Gu, Pisana; Vasyl Solodkyy, Fante; Gianni De Angelis, Servo. Più che mai notevole la prestazione del Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani.

Recensione Maria Luisa Abate for DeArtes

Visto al Teatro Regio di Parma – Festival Verdi – il 17 ottobre 2019
Contributi fotografici: Roberto Ricci