Ci sono registi che possiedono il senso del teatro, altri no. È questo a fare la differenza, e non importa se si tratti di un allestimento classico o “di rottura”. Tale caratteristica – declinata in un’inventiva ostica presso i tradizionalisti, ma indispensabile nei teatri europei – è emersa evidente nel “progetto creativo” su Nabucco firmato da Stefano Ricci e Gianni Forte, duo del teatro di ricerca, insignito del Premio Abbiati che ha sollevato un polverone di pareri discordanti durante il Festival Verdi al Regio di Parma.

La prima parte ha presentato gli elementi ideativi in una specie di ouverture scenica che, nel dipanarsi dello spettacolo, ha condotto verso un significato ben definito e coerente con i concetti di oppressione e libertà narrati nel libretto di Temistocle Solera, e spesso, non sempre, in sintonia con la musica di Giuseppe Verdi. L’allestimento – con la regia di Stefano Ricci, le scene di Nicolas Bovey, i costumi di Gianluca Sbicca, le luci di Alessandro Carletti e le coreografie di Marta Bevilacqua – ha previsto la trasposizione temporale al 2046, in un “futuro distopico” anche troppo somigliante al nostro 2019. Del resto, quello di Ebrei e Leviti credenti in Jeovha, minacciati dai babilonesi di Nabucodonosor re d’Assiria adoranti il dio di Belo, è un conflitto armato tra popoli, tra stati e tra religioni. La storia è destinata a ripetersi.

Il sipario, un telone da lavori in corso, si è aperto sul ponte di una nave, “una nuova Arca” secondo i creativi, uno staterello viaggiante dove l’ordine è mantenuto sotto la minaccia delle armi. Su una parete spiccava, quale nume tutelare e occhio orwelliano, il viso viedotrasmesso del comandante/oligarca/dittatore Nabucco. Scene di crudezza realistica, come il filmato con vere immagini di città distrutte oppure l’ammasso dei naufraghi maltrattati e irreggimentati, si sono sovrapposte a momenti che sono parsi irridere il potere, esercitato da uomini in divisa con il volto celato usi a muoversi su overboard, e che sono sembrati dileggiare chi governa mediante l’imposizione e non con la ragione.

Intemperanze sono piovute dal loggione durante il primo atto e nel corso del primo cambio scena, occupato da un intervento mimato volto a mostrare la distruzione dei libri sacri attraverso un trita-documenti. Di lì a poco, i detrattori si sono dovuti ricredere.

Un boato di applausi, durante il secondo cambio scena, ha premiato la bravura dei figuranti nel simulare, con un realismo che ha veramente angosciato, gli ultimi momenti di vita dei naufraghi prima di affogare inghiottiti dai flutti. La narrazione si è fatta via via più toccante.

Tolta l’immagine dello spodestato Nabucco, ha assunto il controllo la dittatrice Abigaille, in cerca di consensi mediatici e intenta, a uso telecamere, a decorare uno sfarzoso albero di Natale. A questo simbolo di benessere, in seguito si sono ricollegate le lucette di avvistamento collocate sui giubbotti salvagente dei naufraghi, quasi fossero tragici addobbi. Di grande forza drammatica, la scena in cui i corpi recuperati in mare sono stati ammonticchiati accanto a una barella, a formare un assieme iconografico simile a una Pietà.
Il “Va’ pensiero”, ricordo della patria lontana e perduta, si è levato tra le casse dei tesori d’arte imballati e pronti a essere esportati, dalla voce di un popolo spogliato delle vesti e della propria identità culturale, impegnato nel tentativo di togliersi di dosso mediante spugnature il peso dell’oppressione. E Nabucco, re che si credeva un Dio, per Ricci-Forte ha dapprima incarnato i mali dell’umanità, per poi diventare il simbolo di un possibile riscatto.

A conciliare i giudizi e a riscuotere unanimi consensi, il cast. Gigantesca la caratura di Amartuvshin Enkhbat, sfolgorante Nabucco, baritono mongolo ma di evidente “madre patria verdiana”, voce sontuosa, generosa in colori, dalla dizione impeccabile, così come eccelse sono state la proiezione, il fraseggio, la padronanza sia nell’uso della tecnica che dell’espressività. Abigaille aveva la voce al cromo vanadio di Saioa Hernández, sempre svettante, sicura in tutti i registri. Mezzi importanti, canto levigato e dolcezza interpretativa per Annalisa Stroppa, Fenena; emissione luminosa e ben proiettata di Ivan Magrì, Ismaele. Nelle vesti del padre spirituale Rubén Amoretti, Zaccaria; di notevole valore i ruoli “minori” sostenuti da Gianluca Breda, Gran Sacerdote di Belo, Manuel Pierattelli eccellente Abdallo, Elisabetta Zizzo, Anna.

Il Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani ha avuto un più che meritato momento di gloria – bissato dietro insistenti richieste di pubblico – nel “Va’ pensiero”. Il suono inizialmente impalpabile si è imperlato di un pathos posatosi ovunque come rugiada fino alla corona finale, sostenuta anche nell’ultimo fremito dell’aria, culmine di un sublime momento espressivo da annoverare tra i pochi indimenticabili uditi negli ultimi anni. Nel quale ha avuto un ruolo importante il sostegno della Filarmonica Toscanini.

Sul podio di questa, e dell’Orchestra Giovanile della Via Emilia, era Francesco Ivan Ciampa, giovane direttore capace di superare la sua già vasta fama e di stupire magnificamente l’orecchio dell’ascoltatore facendo scoprire Verdi sotto una nuova luce.Ciampa ha affrontato l’edizione critica a cura di Roger Parker (The University of Chicago Press e Casa Ricordi) dimostrando sensibilità per l’estetica del compositore, con il quale si è trovato in empatia per quanto ha riguardato l’uso di dinamiche e agogiche, lo sfoggio dei chiaroscuri smaltati, i colori tenui capaci di accendersi in esplosioni cromatiche. Per dirla in due parole, Ciampa possiede intelligenza e gusto elegante, anche nell’aver reagito con aplomb ai commenti del loggione aiutando buca e palco a mantenere l’indispensabile concentrazione.

Recensione Maria Luisa Abate for DeArtes

Visto al Teatro Regio di Parma – Festival Verdi – il 20 ottobre 2019
Contributi fotografici Roberto Ricci