Lodevoli le limature, alla terza edizione dal debutto. Convince sempre più l’Aida confezionata nel 2013, anno del Centenario, con l’impegnativo compito di traghettare l’opera nel terzo millennio, e che ha fatto ritorno all’Arena di Verona lasciando agli spettatori la facoltà di scegliere tra l’innovazione e un secondo allestimento, carico delle antiche suggestioni tramandate dal 1913. L’ideazione del tanto celebre quanto abitualmente discusso collettivo catalano La Fura dels Baus continua a dividere le opinioni, costituendo un’esperienza forte, il cui fascino non pecca certo per originalità. L’eliminazione di molti, purtroppo non tutti, cigolii dovuti agli ingranaggi, ha finalmente tributato il doveroso rispetto alla musica, per quanto il disegno registico rimanga soverchiante. L’Aida de La Fura, non di Giuseppe Verdi. La partitura, trattata da colonna sonora seguendo motivazioni che possono essere non condivise, tuttavia mai superficiali, ha costituito spunto per l’utilizzo, in scienza e coscienza, di nuovi linguaggi espressivi, spesso intellettuali per la sovrabbondanza di simbologia di complessa decodifica, sempre di elevato lirismo.

Quando il pubblico ha fatto il suo ingresso nell’anfiteatro, l’azione scenica era già iniziata. Sferzati dall’inquietante sibilo del ghibli, gli archeologi stavano estraendo dalla sabbia un bassorilievo poi imballato, tiranneggiando la manovalanza locale, secondo quanto storicamente accadde. Le dune si sono progressivamente gonfiate come plasmate dal vento e si sono screziate delle magiche ombre del deserto. Al centro del palco, lo scenografo Roland Olbeter ha collocato due avveniristici obelischi, ovvero due tralicci (una volta tanto era coerente la gru di servizio) dai bracci meccanici in movimento, a innalzare e spostare materiali ricordando, nell’incessante lavorio, la costruzione del Canale di Suez, per la cui inaugurazione l’opera fu commissionata. Tra le torri metalliche è sorto il globo opalescente della luna, suggestivo sfondo al trapezio sul quale ha volteggiato un’acrobatica Sacerdotessa, mentre dalle gradinate tra il pubblico si snodava una processione di sacerdoti incappucciati in bianche tuniche, a tracciare un cammino numerologico e a recare sfere luminose che, nell’edizione del debutto, servivano a comporre sul palco le lettere del nome del possente Fthà, ora purtroppo illeggibili. La scena del Trionfo è stato un tripudio di tecnologia, ludica, di quella stessa esuberanza sopra le righe che caratterizza queste specifiche pagine verdiane. Un affastellarsi di spunti visivi e concettuali, alla ricerca di shock emotivi. Come in una moderna piramide, sono stati montati uno a uno i blocchi riflettenti di una centrale a energia solare, richiamo alla luce sinonimo del dio Râ, che nell’ultimo atto si è richiusa sopra Aida e Radamès. L’ispirazione della coppia di registi, Carlus Padrissa e Àlex Ollé, era dichiaratamente futurista, omaggio a Filippo Tommaso Marinetti nato ad Alessandria d’Egitto nel 1876, il quale proclamava una rivoluzione consistente nel troncare con il passato, nella distruzione dei luoghi museali, nella glorificazione della guerra come “igiene del mondo”. Concezione che ben è calzata alla celebrazione della vittoria in battaglia musicata da Verdi. Futurismo traghettato in un’attualità immaginifica e immaginaria, in un progresso poeticamente trasognato. Uomini equiparati a scarti di produzione sono rotolati all’interno di bidoni di scorie radioattive, tra animali meccanici dal fascino moderno a atavico insieme, tra scalette d’aerei e muletti elevatori, macchine da autoscontro con scarabeo-marchio sul cofano, insegne infuocate, sètte con simboli tatuati sulla pelle, guardie in tute antinfortunistiche (costumi Chu Uroz). Intimo e raccolto ancorché sempre alla ricerca dell’effetto sconcertante, il terz’atto, con uomini-palme a far ondeggiare al vento le gigantesche foglie mentre nel geometrico Nilo i coccodrilli di gommapiuma gattonavano su skateboard, danzavano in simbiosi mistica con le fanciulle (coreografia Valentina Carrasco) e inseguivano famelici gli indigeni.

Benché spesso distraente rispetto alla musica, elemento la cui imprescindibilità è superfluo rimarcare, la matrice spiazzante ha sortito effetti onirici, stranianti, stimolanti. Piaccia o non piaccia, la si consideri motivo di discussione o occasione per liberarsi dalla zavorra dei preconcetti, questa Aida rappresenta in ogni caso di una pietra miliare, assolutamente da vedere. Sul podio Julian Kovatchev si è mosso in un’ottica di funzionalità al palcoscenico, meno all’intesa con l’Orchestra; dinamiche uniformi, parche in colori, con maggiore attenzione alla descrittività rispetto agli impeti drammatici o passionali. Non a proprio agio nel primo atto, Sae-Kyung Rim ha progressivamente assunto spessore e sensibilità, in una prova svolta in crescendo ma discontinua. La caratura del soprano è emersa in special modo negli acuti trasparenti e nell’uso delle mezze voci, evocative dell’espressività di Aida. Personaggio di competitività sottilmente complessa, Amneris ha compendiato la freddezza calcolatrice all’introspezione meditativa, scaturita dalla comprensione dei sentimenti della rivale. Stati d’animo che Anna Maria Chiuri ha delineato grazie al fraseggio sopraffino, con il caldo colore scuro del mezzo vocale padroneggiato senza incertezza alcuna, con pastosità nell’intera gamma dei registri. Radamès ha avuto la solidità di Carlo Ventre, una certezza, per lo squillo pulito, saldo anche nella temibile romanza iniziale “a freddo”, purtroppo non bissata. Con tenuta d’omogeneità ineccepibile, il tenore non ha mai “spinto” troppo, anzi si è prodigato in sfumature e accenti, acquisiti nel corso di una carriera improntata all’incessante crescita artistica. Sfoggio coloristico e suono tornito, di gran classe, per Leonardo López Linares, Amonasro dal carisma scenico e interpretativo. Ben timbrata la voce, di valore, di Marko Mimica, incisivo Ramfis. Corretti il Re, Romano Dal Zovo; la Sacerdotessa, Tamta Tarieli, infine il Messaggero Cristiano Olivieri. Ricercata, mai scontata, la resa del Coro, sotto la guida di Vito Lombardi.

Visto il 16 Luglio 2017; Foto Ennevi, per Fondazione Arena di Verona.

Recensione Maria Luisa Abate