Le ombre di aerei in formazione sono salite lungo il frontescena dell’Olimpico.
Le colonne e le statue si sono annerite di graffi e di squarci; poi, tra le rovine, sono attecchiti gli alberi. Gli ordigni sganciati dal cielo hanno recato morte, come l’
“angue che punse con velenoso dente” Euridice. In un teatro che propone, e impone, la visione palladiana con cui ogni mise en scène deve necessariamente rapportarsi, il progetto sperimentale immersivo di videomapping (di ZebraMapping con la scena virtuale di Mauro Zocchetta) ha evidenziato i singoli elementi architettonici e li ha integrati con le proiezioni delle Vedute di Vicenza di Neri Pozza, artista che si adoperò per la rinascita della città dopo la guerra. Spunto concettuale interessante, benché non subitamente intelligibile per lo spettatore, se non dopo aver scorso il libretto di sala, complemento in questo caso resosi indispensabile.

L’Orfeo, nuovo allestimento di Vicenza in Lirica, era ambientato alla fine delle ostilità quando, dalle macerie della devastazione, assursero a nuova vita la cultura e l’arte, il teatro e quella stessa musica che nella favola di Monteverdi è un personaggio in carne e ossa. Andrea Castello ha dipanato la regia attorno al significato rivestito da Euridice/Vicenza che, sprofondata nell’Ade dei rifugi antiaerei, viene indirizzata verso la rinascita da Orfeo. Figura quest’ultima, riguardo la quale Castello, più che al librettista Striggio, si è rifatto al mito di Ovidio e Poliziano che indicavano come voluto, lo sguardo cagione del ripiombare di Euridice tra gli Inferi e che spalanca a Orfeo le porte del giocondo olimpo degli dei. In questa sottolineatura della non univocità, dell’ambiguità del protagonista, è parsa estensione del disegno registico, la presenza tra il pubblico delle drag queen di Madame Sisì (uno degli obiettivi di questo festival era portare la lirica in contesti non convenzionali, come le discoteche). Il conflitto bellico di sottofondo e, in primo piano, il conflitto interiore di Orfeo, al quale Castello ha affiancato un alter ego proiezione della mente, personificato da Paolo Pincastelli in una scultura danzante, servita altresì a scuotere scenicamente il consesso umano, dalle movenze minimal. Un sottinteso outing del semidio, che ama Euridice non come donna, ma come musa ispiratrice. Una volta pacificate le ferite strutturali e psicologiche, con bella intuizione Castello ha superato l’immagine di traslazione poetica della Storia e, finalmente, ha ripristinato il concetto di città ideale espresso nella splendida fuga prospettica dello Scamozzi, al cui centro stava la Musica nell’atto di abbracciare la statua, con funzione salvifica nei confronti dell’intera arte.

Francesco Erle, sul podio, ha confermato intelligenza nella direzione e nella concertazione, con esiti stilistici di spiccata personalità. I tempi, di festante magnificenza stemperata in momenti di pacata riflessività, hanno dato spazio agli abbellimenti strumentali della Schola San Rocco, con i fiati dalle sonorità antiche di Harmonia Parnassia. Le scelte dinamiche e coloristiche, inusuali rispetto alla consuetudine esecutiva, erano frutto di un lavoro d’incessante approfondimento sul dettato monteverdiano, in particolare sulle diminuzioni e sui segni di chiusa delle sezioni. Dal gesto direttoriale, estroso e scattante, sono emersi l’intendere il “santuario laico” di Palladio come un “luogo di ricerca della conoscenza” e il credo, di Erle, “nella forza rigeneratrice della cultura per la società tutta”. Concetto che ha racchiuso in sé l’intero senso dello spettacolo, come sempre dovrebbe essere in ambito operistico.

Il cast era giovane, ma ben preparato al genere barocco dalla mano esperta di Gemma Bertagnolli. Notevole la sezione femminile, con interpreti tutte dal bel timbro. Giulia Bolcato nel triplice ruolo di Musica, Euridice, Eco, dalla voce limpida e capace di levità; Valeria Girardello, spigliata Messaggera; Anna Bessi, Speranza e Arianna Lanci, Proserpina, attente nel delineare un futuro dai contorni dolenti. Qualche perplessità ha riservato il comparto maschile. È spiccato Fulvio Fonzi, notevole Plutone. Timbro affascinante per Marco Saccardin nelle vesti del protagonista, cui perdoniamo alcune sbavature. Promettenti, affinando lo studio, Mateusz Drozda Caronte ed Enrico Busia, Primo Pastore e Apollo. Completavano il cast la brava Martina Loi, Ninfa; Enrico Torre e Antonio Orsini, Pastori. Vocalmente vivace la prestazione del Coro, anch’esso parte della valente Schola San Rocco.

Visto il 6 settembre 2017. Foto Luigi De Frenza

Maria Fleurent