Ci si è aperto il cuore ad aver assistito, anche in questa estate segnata dalla pandemia, a un’opera eseguita per intero in Arena, sia pure in forma semiscenica. Con il valore aggiunto dell’essere un titolo qui mai rappresentato prima. Gianni Schicchi è un atto unico facente parte del Trittico di Giacomo Puccini e ha dato un magnifico segnale della volontà di tornare presto alla normalità. Ma anche ha dimostrato che, nel complesso della stagione veronese, si sarebbe forse potuto osare di più sul versante degli allestimenti. L’anfiteatro infatti ha dimostrato una stupefacente adattabilità all’insolita situazione e ha attivamente contribuito, quasi fosse un’entità viva, a rendere vincenti le scelte coraggiose della Direzione artistica, che ha sperimentato e innovato, ha mantenuto alta la qualità, ha regalato sogni e concretezze.

Il mitico Leo Nucci in verde età ha avuto modo di lavorare assieme al librettista Forzano a quest’opera e la conosce profondamente. Per l’Arena ha confezionato un gustoso schizzo registico basato sulla vivacità del movimento attoriale e lo ha guarnito con qualche escamotage divertente, come uno striscione o l’entrata in scena in bicicletta o il metro da merciaio usato per misurare il distanziamento. Il tutto, nel ristretto spazio davanti all’orchestra che quest’anno, come è noto, è posizionata al centro dell’anfiteatro. Buoso Donati giaceva nel letto dove era appena passato a miglior vita. Sul capo aveva una cuffia sanitaria e appeso all’attaccapanni era un camice verde da ospedale. Lo stesso poi indossato dallo Schicchi per sostituirsi al morto, ingannare il notaio e modificare il testamento. Gli avidi parenti, nei momenti in cui non cantavano, portavano le mascherine imposte dalle attuali regole anti coronavirus: una bella sovrapposizione tra la realtà e la trama operistica che vede Schicchi mettere “in testa la cappellina, al viso la pezzolina”. Una messa in scena, quindi, figlia dei nostri giorni e che anche per questo resterà nella memoria.

Nelle vesti del protagonista era Leo Nucci, come da consuetudine munito di un naso pronunciato che ha ricordato il “gran padre Dante”, al quale si ispirò Puccini per musicare la vicenda, mutuata dal XXX Canto dell’Inferno. Nella decima Bolgia, ottavo Cerchio, l’Alighieri castigò Gianni Schicchi per aver truffato i congiunti del Donati (alla cui casata apparteneva la moglie del sommo poeta). Puccini e Forzano invece deridono l’avidità del parentado ed evidenziano il nobile fine dello scaltro imbroglione, che destina il maltolto a sostenere le spese delle nozze tra la figlia Lauretta e Rinuccio. Il grande Leo nazionale, quasi ottanta primavere e un’energia da fare invidia a un ventenne, è il mattatore di sempre, abilissimo nel magnetizzare il pubblico; bella proiezione, stupenda interpretazione e ancora qualche asso baritonale nascosto nella manica, da giocare al momento giusto. Ha rivestito della simpatia che gli è propria la bricconesca furbizia del personaggio, con “mestiere” e classe, rimasta tale anche nei momenti riservati alla caratterizzazione buffa.

Ottima Lavinia Bini nei panni di Lauretta, dalla vocalità fresca, dolce e intensamente espressiva in “Oh mio babbino caro”, bissato al termine della serata. Bis post recita pure per “Firenze è come un albero fiorito”, l’aria di Rinuccio cantata con passione e ardore giovanile da Enea Scala, voce di pregio per la prima volta al cimento in questo ruolo. Uno dei personaggi più esilaranti è Zita, per la quale Rossana Rinaldi ha spiritosamente rimodulato il timbro caldo e brunito, oltre che la fisicità, immedesimandosi alla perfezione nella “vecchia” e riscuotendo un applauso aggiuntivo quando ha gridato “L-L-L-Ladroooo” con esilarante tono acidulo.

Questo titolo più di altri richiede agli interpreti puntualità, affiatamento e il divertirsi come condizione indispensabile per far divertire gli astanti. Così è stato per questo cast, tra personaggi più credibili e altri maggiormente caricati: Giorgio Giuseppini, Simone; Marcello Nardis, Gherardo; Rosanna Lo Greco, Nella; Biagio Pizzuti, Betto di Signa; Alice Marini, La Ciesca; Gianfranco Montresor, Marco; Dario Giorgelé, Maestro Spinelloccio; Nicolò Ceriani, Ser Amantio di Nicolao; Maurizio Pantò, Pinellino; Nicolò Rigano, Guccio. Un meritato bravo va al giovanissimo debuttante Zeno Barbarotto, Gherardino, presentatosi in scena con un pallone da calcio nella stessa sera in cui si stava disputando una partita di Champions League.

Francesco Ivan Ciampa ha tratto dall’orchestra areniana tinte brillanti e di ben dosata giocosità. Va ricordato infatti che, a detta di Ricordi, l’intenzione di Puccini era “far ridere questo musone di pubblico”. Il direttore ha riservato alla tessitura pucciniana attenzione meticolosa però mai pedante, anzi estremamente vivace, e ha dato vita a un eccellente amalgama tra la parte strumentale e quella vocale.

La stagione ancora in corso, che si concluderà nel week-end del 28 e 29 agosto, ci ha abituati a un lungo susseguirsi di bis a integrazione delle serate, studiatamente brevi per eliminare l’intervallo e con esso un’occasione di assembramento, vietato in tempo di covid. In questo caso, il fuori programma ha portato … fuori programma! La recita si è conclusa con un’appendice, tributo alla grandezza di Leo Nucci: la digressione rossiniana della cavatina di Figaro, uno dei suoi più acclamati cavalli di battaglia, ha letteralmente mandato in visibilio il pubblico.

Recensione Maria Luisa Abate

Visto all’Arena di Verona il 21 agosto 2020
Foto Ennevi – Fondazione Arena di Verona