Questa volta, cari lettori, l’acrobazia è davvero spericolata, la scalata impervia, la discesa precipitosa. Ma so che siete coraggiosi e curiosi e dunque: partenza! La novità è che quest’articolo, a differenza di quelli che lo hanno preceduto, non è stimolato da una singola e specifica esecuzione su disco di questo o quel musicista, ma piuttosto da un brano in sé, un blues, forse il più famoso di tutti: mi riferisco al “Saint Louis Blues” scritto da William Christopher Handy nel 1914. L’hanno inciso moltissimi artisti: cantanti, solisti, orchestre di musicisti bianchi o neri.

È una sorta d’inno, un transito obbligato, una specie di porta da cui tutti devono passare, una sacra rappresentazione: tutti hanno cantato o suonato o arrangiato il “Saint Louis Blues”. Earl Hines al piano ne ha fatta una versione ironica ma non irrispettosa: “Boogie Woogie on Saint Louis Blues”. Per le ragioni che spero risulteranno chiare e condivisibili procedendo nella lettura, mi serviva scegliere per quest’occasione una versione del brano, tra le centinaia disponibili. Bing Crosby o Fats Waller? Django Reinhardt o Benny Goodman? Billie Holiday o Glenn Miller? Art Tatum o Shirley Bassey? Dave Brubeck o Pat Boone? Dizzy Gillespie o Illinois Jacquet? O magari Mina? O Jula De Palma (no, grazie!). Nessuna di queste: infatti, il disco alla cui memoria quest’articolo è consacrato era una versione di Louis Armstrong. Ma quale? Ne avrà incise a decine, in piccolo complesso o accompagnato da una big band e per tutto l’arco temporale della sua carriera. Non potendo identificarla con sicurezza nei meandri dei miei ricordi, mi sono concesso una (piccola) licenza e ho pensato di parlarvi di un “Saint Louis Blues” non di Armstrong, ma con Armstrong. In compenso, Louis, se non è in questo caso il titolare della registrazione, compare come accompagnatore di una cantante di blues considerata quasi unanimemente la più grande di tutte: l’immortale Bessie Smith. Devo cominciare – temo – a scoprire le carte, ma non tutte: il disco o meglio quello specifico disco che ho cercato invano di individuare era in casa mia molto prima che io iniziassi a interessarmi di jazz. E che ci faceva lì, allora? Non interessava certo ai miei genitori, che gradivano altre forme di musica. Apparteneva, invece, alla mia sorella maggiore, neanche lei propriamente appassionata di jazz, ma evidentemente non del tutto indifferente al suo fascino.

Lasciamolo lì allora, questo disco di Armstrong oggi non identificabile, nella vecchia casa di famiglia e nel lontano 1947. Solo pochi anni prima, ai tempi in cui la lingua italiana andava, secondo il regime, “difesa” da influenze straniere l’etichetta del disco avrebbe riportato il titolo ineffabile di “Tristezza di San Luigi” come si era deciso di ribattezzare il lavoro del povero Handy. Tristezza, davvero: in compenso oggi ne esiste in rete una traduzione in italiano sotto un titolo ai miei occhi altrettanto sospetto e ridicolo: “Le Paturnie di St. Louis”. Mah!

Bessie Smith incise la sua versione del brano il 14 gennaio del 1925: con lei Louis Armstrong alla cornetta e Fred Longshaw all’harmonium. Come ricorda Chris Albertson nella sua monografia dedicata alla cantante (“Bessie”, 1972), “Questo è diventato il blues con il maggior numero d’incisioni in assoluto, ma sono molti a considerare questa la versione definitiva“. L’harmonium contribuisce a creare una deliziosa atmosfera da chiesa country e le due voci della cantante e della cornetta, si fondono così armoniosamente che si potrebbe pensare a una lunga e consolidata collaborazione, mentre era la prima volta che s’incontravano”.

L’atmosfera è solenne, a tratti cupa. Sentite come la definisce Hugues Panassié: “È senza dubbio la versione più autentica che noi possediamo su disco di questo famosissimo brano: a tempo molto lento, afflitta e disperata, corrisponde in pieno allo spirito con cui questo blues era interpretato in origine”. Altroché Jula De Palma… È molto probabile che l’enorme successo e la variegata diversità di interpretazioni a volte frivole o volgari abbiano ma mano fatto perdere di vista contorni e significato dell’originale.

Ecco qualche strofa, in una trascrizione fonetica, espressa nel linguaggio parlato e gergale che caratterizza spesso i testi del blues

I hate to see the evenin’ sun go down, 
Hate to see the evenin’ sun go down
‘Cause ma baby, he done lef’ this town.
Feelin’ tomorrow like I feel today, 
Feelin’ tomorrow like I feel today, 
I’ll pack my trunk, make my git away.

Saint Louis woman with her diamon’ rings 
Pulls that man ‘round by her apron strings.
‘Twant for powder and for store-bought hair, 
The man I love would not go nowhere, nowhere.
Got the Saint Louis Blues as blue as I can be. 
HÈs got a heart like a rock cast in the sea.

Or else he wouldn’t have gone so far from me

Ecco cosa ha indotto quel ragazzo ad abbandonare la città e a straziare la protagonista del canto, che da allora odia il calare del sole. Questioni di cuore, naturalmente: una donna di St. Louis con il suo diamond ring (anello con il diamante) gli ha fatto girare la testa e l’ha indotto a partire, cosa a cui lui non avrebbe mai pensato, non fosse stato per quella svergognata.

Il nostro disco ha un’apertura un po’ solenne: l’harmonium molto contribuisce a determinarla. Poi Bessie inizia a raccontarci la sua triste storia, caricandola di disperazione e sconforto e Louis Armstrong sullo sfondo improvvisa commoventi frasi di commento, controcanti carichi di empatia. Per chi pensa che non ci sia jazz senza ritmo ben scandito, che il jazz vero è quello che fa schioccare le dita e battere il tempo con il piede, questo Saint Louis Blues annata 1925 potrebbe risultare una rivelazione, un’esperienza molto istruttiva, perché in esso la dimensione ritmica è un po’ compressa e sfumata ma pochi all’ascolto dubiteranno che si tratti di jazz originario, di purezza assoluta e duratura. C’è anche un film ispirato al disco (Saint Louis Blues): portava lo stesso titolo (, durava 17 minuti e venne girato con la regia di Dudley Murphy a fine giugno 1929, con tanto di orchestra, diretta da James P. Johnson, e l’accompagnamento di un coro. Come ricorda Albertson “la trama era esile e il canto di Bessie era l’ingrediente principale”.

Allora, ricapitoliamo: volevo dedicare il brano a quel disco a settantotto giri di mia sorella, ma ho ripiegato su un’altra versione dello stesso brano e con la comune presenza di Louis “Satchmo” Armstrong. Ma cosa ha fatto scattare il balenio del ricordo e la stretta della commozione? Mia sorella studiava lettere a Bologna e si sarebbe laureata (1948) con una tesi dedicata a “La Storiografia di Nicola di Damasco”. Nel piano di studi era compreso anche un esame di letteratura tedesca. Si studiava Goethe e, di Goethe, quella poesia dedicata all’Italia che comincia così:

Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn

Questo breve canto contenuto nel romanzo di formazione Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister viene fatto pronunciare da Goethe a Mignon, la ragazzina che Wilhelm incontra in un gruppo di danzatori di strada e decide di prendere sotto la sua protezione. Mignon, di origini italiane, ricorda con nostalgia il suo Paese, dove fioriscono i limoni.  Non è chiaro a quale parte dell’Italia Goethe intendesse riferirsi: lago di Garda, lago Maggiore, Sicilia? Non importa più di tanto: lo stereotipo del Sud è consacrato. Ecco siamo alla conclusione dell’acrobazia: mia sorella aveva adattato le parole di Goethe alla musica dello St. Louis Blues, la metrica era perfettamente sovrapponibile. Cioè “I Hate to see the evening sun go down” corrispondono a “Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn e lei, per aiutare la memoria o più probabilmente per divertimento, aveva elaborato questo stravagante accoppiamento e girava per casa canticchiando Goethe a ritmo di blues. L’esame di tedesco andò benissimo.

JAZZFRANCO