Bandite le innovazioni e le trasposizioni geografiche o temporali, in favore di una full immersion nella migliore tradizione, di indiscutibile qualità, dal fascino sempre vivo e ancora in grado di dire molto. In “Rigoletto”, che ha inaugurato la Stagione al Teatro Regio di Parma, la Corte ducale di Mantova è apparsa nel rutilare dei colori cinquecenteschi, inseriti nella penombra di un’atmosfera densa, espressione della cupezza interiore che mina la gaiezza di facciata. La lectio magistralis verdiana è venuta dal trentennale allestimento ideato, nelle scene e nei costumi, da Pier Luigi Samaritani e omaggiato nella regia ricordo di Elisabetta Brusa. La discepola del Maestro ha privilegiato situazioni statiche, compiendo una scelta adeguata e quasi obbligata, che tuttavia avrebbe beneficiato di un ringiovanimento sul piano attoriale, a controbilanciare la classicità del contesto. Nel prim’atto, la depravazione della Corte era pudicamente sottintesa da donne ebbre di piaceri, con sullo sfondo un “montaggio” intelligente tra le decorazioni del Castello dei Gonzaga e gli affreschi di Palazzo Te, luogo storicamente deputato ai divertimenti. A seguire, ambienti verosimiglianti: la modesta e linda casa di Rigoletto e della figlia Gilda, un’aula liberamente ispirata all’Olimpico di Sabbioneta, il diroccato torrione di Sparafucile e della sorella Maddalena. Se Monterone, seguendo una consuetudine ormai desueta, è risultato un personaggio cattivo e non una parte offesa, Rigoletto ha esternato i travagli interiori di chi è vittima di sé stesso ed è dagli altri violato nei sentimenti privati, come l’amore paterno. La vera maledizione, ancor prima di quella scagliata dal Conte, è “esser difforme… esser buffone. Non dover, non poter, altro che ridere”. Una scansione caratteriale toccante, attuale e profondamente verdiana.

Altro non poteva essere, in una produzione che ha fulgidamente ruotato attorno al protagonista, la cui sapienza nella recitazione e nella tecnica di canto sono risultate seconde solo al rispetto dimostrato al compositore. Leo Nucci non ha interpretato Rigoletto: lo ha incarnato, lo ha vissuto. Leo Nucci è Rigoletto, nonostante abbia dichiarato che questo, debuttato nel 1973 a Legnago, non sia il suo personaggio prediletto. La cinquantennale esperienza è trasmutata in istintività, nella splendida compenetrazione tra parola cantata e parola scenica. Sulla voce del baritono settantaseienne, il tempo è trascorso con clemenza. È vero, ci si è dovuti “accontentare” di un “solo” bis del “Sì, vendetta”, davanti al sipario chiuso per non rompere la continuità dell’opera, mentre il ricordo andava a quando Super Leo di bis ne inanellava uno dietro l’altro, tutti identici, senza il minimo cedimento delle corde vocali di platino. Al di là dei record che – l’iperbole lessicale è giustificata – hanno proiettato il mito nella leggenda (oltre 530 recite, contando solo quelle ufficiali, senza le generali aperte al pubblico, le innumerevoli registrazioni discografiche e quant’altro, nel corso della carriera iniziata nel 1967) Nucci ha regalato l’ennesima prova memorabile per stile ed eleganza. Ha generosamente donato un’altra emozione, verdiana fino al midollo.

Al suo fianco, Jessica Nuccio, di estrema raffinatezza nella linea stilistica, le cui morbidezze, superato qualche vibrato, hanno tornito l’espressività di Gilda con la dolcezza da innamoramento, fosse esso filiale o per il bel sconosciuto incontrato alla messa. Un discorso a parte merita Stefan Pop, Duca spavaldo nelle intenzioni, meno nella prestanza scenica. Il tenore ha esordito tra insicurezze e voce vibrata, ma già dal secondo quadro l’emissione si è fatta salda e sempre più limpida, in un crescendo che ha portato a esiti notevoli, fino a toccare l’apice qualitativo in “La donna è mobile”, eseguito con pregevole grazia.

Sparafucile aveva il fraseggio accurato e il bel timbro di Giacomo Prestia, sicario di retta onestà nello svolgimento del proprio mestiere, d’indole tenebrosa e impenetrabile come la nebbia che ha avvolto la sua prima apparizione. Rossana Rinaldi era l’adescatrice Maddalena, dalle interessanti tinte brunite. Magnetico, Carlo Cigni nelle vesti di Monterone. Corretta la coppia di cortigiani Marullo e Borsa, Enrico Marabelli, che ha sostituito all’ultima ora l’influenzato Marco Nisticò, e Giovanni Palmia. Puntuali, Carlotta Vichi Giovanna; Arianna Manganello Contessa di Ceprano e Paggio; Daniele Terenzi Conte di Ceprano; Tae Jeong Hwang, Uscere. Entusiasmante per fraseggio e sfoggio di pianissimo in sincrono perfetto, la prestazione fornita dal Coro del Teatro Regio istruito da Martino Faggiani.

Francesco Ivan Ciampa, sul podio dell’Orchestra dell’Opera Italiana, avendo sempre presente le esigenze del palco, ha dettato tempi concitati con repentine densità e smorzature dinamiche, in un alternarsi tra luci e ombreggiature stringate nel lirismo, prodighe nel caleidoscopio di colori.

Visto al teatro Regio di Parma il 12 gennaio 2018. Foto di Roberto Ricci

Recensione Maria Luisa Abate