Affermare che l’Arena di Verona abbia scritto nel proprio albo d’oro un’altra pagina destinata a restare nella memoria collettiva, è dire una ovvietà: dopo 41 anni di assenza dall’anfiteatro il Maestro Riccardo Muti è tornato a dirigere i complessi areniani, in due serate di anteprima al 98° Opera Festival, grandemente attese e grandemente acclamate. E se tutto ciò che riguarda il Maestro Muti assume comprensibilmente i contorni della straordinarietà, ancor più questa è stata sottolineata dalla specifica circostanza: la celebrazione dei 150 anni dalla prima rappresentazione di Aida che, è arcinoto, avvenne a Il Cairo il 24 dicembre 1871, commissionata a Giuseppe Verdi per festeggiare l’apertura del Canale di Suez.

Il Maestro Muti ha deciso di eseguire l’opera in elegante forma di concerto, stante le limitazioni antipandemia che ancora condizionano il settore scenografico. Come sfondo, un’infilata di dune di colore rosso infuocato, in video design di D-Work. A suggerire con nitore la dimensione visiva è stata la portentosa capacità descrittiva del tessuto musicale, sulla quale si è potuta focalizzare l’attenzione del pubblico. L’Egitto, quindi, non ricostruito dal regista di turno ma come immaginato dallo stesso Verdi: la musica regista di se stessa.

Scelta che ha poggiato solide fondamenta sulla ben nota attenzione del Maestro Muti alla partitura, ai molti segni espressivi che essa riporta. Una fedeltà esecutiva rigorosa, che ha cesellato le raffinatezze e restituito con vividezza i colori, fossero essi esotici oppure espressione interiore. L’Egitto, ricondotto alla sua aura misteriosa, sacrale, solenne, è rimasto ben visibile sullo sfondo mentre in primo piano sono emersi, perfettamente definiti, i singoli personaggi e la profondità del loro vissuto. Un’Aida splendidamente e rispettosamente restituita alle intenzioni originali dell’autore, a una sfera intimistica che ha toccato i vertici di questa condizione. Un’Aida come (quasi) mai la si era sentita, lontana dai toni altisonanti e magniloquenti che, nel corso degli anni, sono diventati consuetudine, e che qui hanno lasciato spazio a tutte le finezze verdiane delle quali l’orecchio, non più abituato ad esse, si è deliziato.

Una impostazione impressa fin dalle prime note e portata avanti con omogeneità d’intenti nel corso della serata, attenta ai toni smorzati come ai pieni, alle atmosfere soffuse come alle densità, alla generosa ricchezza dei chiaroscuri. Esempio lampante è stato il trionfo, magistralmente misurato nelle dinamiche e proteso alla sottolineatura dei particolari più minuti. Una marcia trionfale non trionfalistica, dai molti risvolti finalmente udibili, presaga del destino di sconfitta che accomunerà vincitori e vinti e che colpirà indistintamente i protagonisti. Prima o poi tutti perderanno: chi la libertà, come il Re Etiope Amonasro e la figlia Aida; chi l’amore, come la figlia del Faraone d’Egitto Amneris; chi la vita, come gli innamorati Radamès e Aida.

Sotto il gesto estremamente preciso di Riccardo Muti, attento alle sezioni orchestrali così come alle singole voci inserite impeccabilmente nella globalità della resa sonora, l’Orchestra ha dato il meglio di sé e così pure il Coro, che, finalmente tornato a riunirsi alle spalle della compagine strumentale (rispettando il distanziamento interpersonale) ha ritrovato la consueta compattezza, preparato da Vito Lombardi.

Chi più chi meno, gli interpreti hanno risentito di un’amplificazione non sempre ben tarata e forse eccessiva, considerata l’ottima acustica dell’Arena. Nel ruolo del titolo Eleonora Buratto ha confermato la magnificenza delle proprie doti. Il soprano ha fatto sfoggio di una vocalità rilucente di sfumature interpretative e una padronanza tecnica posta a servizio del personaggio, tratteggiando un’Aida di intensa espressività, focalizzata sulla scansione emotiva, sulla parola grondante pathos. Superlativa Amneris di Anita Rachvelishvili, presentatasi in forma smagliante dopo l’indisposizione che l’aveva costretta a dare forfait la prima serata, dovuta all’essere in “dolce attesa”. Il mezzosoprano ha toccato vertici di eccellenza scandagliando minuziosamente ogni anfratto della gamma con la voce svettante, di una brunitura fattasi particolarmente calda e avvolgente; ha dosato con attenzione le dinamiche e sfoderato un fraseggio a tratti commovente, di sempre elevata intensità drammatica. 

Ha fatto ampio uso di toni smorzati e di pianissimo, là dove Verdi li ha voluti, il tenore Azer Zada, dalla pasta vocale non così potente come il ruolo ci ha abituati ma di certo valore e di uno spiccato lirismo egregiamente integratosi nella dimensione interiore dettata dal podio. Ambrogio Maestri ha costituito una presenza di qualità, in una prova, nei panni di Amonasro, di penetrante sobrietà, ripulita da orpelli interpretativi. Re di lusso era Michele Pertusi, mentreincisivo Ramfisera Riccardo Zanellato. Completavano il cast l’ottimo Messaggero Riccardo Rados e la voce di lunare luminosità della Sacerdotessa Benedetta Torre.

Ha contribuito al clima festoso della serata, il ritorno di questo straordinario teatro all’aperto allo stato abituale pre-covid, dopo lo scorso anno caratterizzato da stravolgenti norme di sicurezza, che in parte ancora sussistono. Ma che respiro di sollievo, che scoppio di gioia nel cuore essersi affacciati all’interno dell’anfiteatro e aver rivisto le corsie rosse stese sulla pavimentazione, le poltrone allineate nella platea (occupate a posti alterni), le poltroncine nuovamente installate sui primi anelli delle gradinate che, oltretutto, si sono mostrate in tutta la loro marmorea bellezza dopo l’operazione di ripulitura. Che felicità aver ritrovato il palcoscenico là dove si era abituati a vederlo e dove l’acustica dà la sua resa migliore. Tutti avevamo bisogno di un ritorno alla normalità e l’Arena ha regalato anche questa, ennesima, emozione.




Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona, 98° Opera Festival,
22 giugno 2021
Contributi fotografici: EnneviFoto