È una «serata corsara», mettono subito in chiaro l’istrionico regista e il musicista surreale. L’ironia scanzonata e la pacata parodia. Francesco Micheli ed Elio sono due ultras dell’opera, fanatici fino al midollo di Rossini, Bellini, Donizetti e del gran “padre” Verdi. Il loro spettacolo equivale a uno striscione da tifoseria, inneggiante ai ‘campioni’ della musica, sventolato in uno stadio. Un amore che non conosce – e non deve conoscere – limiti, sul quale ha poggiato solide fondamenta lo spettacolo che ha tramutato per una sera un tempio della lirica quale è il Teatro Regio di Parma, nella sede dell’ “Opera Horror Picture Show”, dedicato ai quattro Golden boys della scena musicale italiana dell’ottocento.

L’opera è ancora oggi la forma di spettacolo più diffusa al mondo (contando anche gli eventi sportivi compreso il calcio) e ogni metropoli, per definirsi tale, apre un teatro seguendo tuttora il modello di teatro all’italiana. Essere italiani è un vanto che ci viene riconosciuto a livello internazionale.

Francesco Micheli è uno stimato regista oltre che ingegnoso direttore artistico del festival Donizetti di Bergamo. Elio, assurto agli onori della cronaca come frontman delle oramai disciolte Storie Tese, è diplomato in flauto al conservatorio “Verdi” di Milano, abilità di cui ha dato prova nel corso della serata. Possiede anche una laurea in ingegneria al Politecnico restata nel cassetto, benché anch’essa abbia presumibilmente contribuito a dargli una forma mentis, ad acuire la sua distintiva capacità di basare lo scherzo sulla competenza, sulla conoscenza della materia.

Il messaggio è stato tanto semplice quanto rivoluzionario: l’opera è divertente. E non è un genere tramontato, infatti trova innumerevoli sbocchi nella contemporaneità, dalla musica pop al cinema. Francesco Micheli ha dispensato richiami e tessuto collegamenti a piene mani avvalendosi di immagini scorse sul fondale, dove sono apparsi David Bowie e Maria Callas, i film di Stanley Kubrick e quelli di Ermanno Olmi.

Chi ama l’opera sa bene quanto essa dirami le sue magnifiche propaggini in ogni luogo in ogni tempo e in ogni ambito. Condicio sine qua non, è possedere una mente aperta. Messaggio che Micheli ha implicitamente ribadito indossando orgogliosamente la maglietta raffigurante una dama in abiti ottocenteschi, avente il volto barbuto di Giuseppe Verdi. L’effige, lanciata durante questa edizione da Verdi Off sulla bella scia grafica esistente da diversi anni, ha suscitato pareri discordanti e nientepopodimeno che una interrogazione parlamentare (n.d.r. una situazione di cui non si sa se ridere o piangere, per identico motivo). L’immagine testimonia l’apertura mentale e il desiderio di estendere il teatro oltre le sue mura fisiche, per innestarlo nel tessuto urbano odierno, che caratterizza il Festival Verdi e soprattutto Verdi Off, rassegna parallela nata proprio per porre la figura del compositore in relazione a stili e linguaggi diversi, omaggiandone sia la contemporaneità sia l’anticonformismo.

È stato ricordato nel corso dello spettacolo che Verdi subì in vita pesanti atteggiamenti censori. Dopo il celeberrimo episodio della bocciatura alla domanda di ingresso al conservatorio (quello stesso che oggi porta il suo nome) il Maestro si accompagnò a una donna già madre di due bambini avuti da padre ignoto, e non la sposò, fatto eclatante e scandaloso per l’epoca. Stanco dei pettegolezzi, si rifugiò a Parigi per sfuggire alle malelingue. Ma la grandezza della musica infine prevalse. Verdi trascorse gli ultimi giorni di vita al Grand Hotel et de Milan in via Manzoni, strada che i milanesi avevano ricoperto di paglia perché il rumore delle carrozze non disturbasse il riposo del Maestro. 

Prima di lui, si erano materializzati sul palcoscenico, come evocati in una improbabile seduta spiritica, Rossini, Bellini e Donizetti, ai quali Elio ha prestato corpo, volto e parrucche, e anche una voce consapevolmente e fieramente inadatta, con la quale ha intonato intere romanze, accompagnato al pianoforte da Simone Soldati. Una brillante parodia se stesso prima ancora che di interpreti e di compositori. «Mi hai sentito?» «Purtroppo sì!» è stata la risposta divertita del compagno di scena.

Hanno così preso forma fisica il rivoluzionario ma precocemente impigrito Gioachino, mi raccomando con una ‘c’ sola, e il suo alter ego Barbiere munito di rasoio elettrico. Poi Vincenzo, siculo doc, maestro del Belcanto, bello e dannato: «il David Bowie della lirica. Lui è sesso droga e opera. Norma è la sua The dark side of the moon». Poi Gaetano, uno dei ragazzi del poverissimo Borgo Canale, dal quale uscì grazie al lavoro infaticabile. Scrisse 70 opere: «il discount della lirica». Donizetti debuttò Lucia a Napoli mentre imperversava un’epidemia di colera. Micheli è anch’egli nato a Bergamo, dove il covid ha picchiato duro.

Infine Giuseppe, evocato con un briciolo di titubanza. «Non denunciatemi, eh?» è stata la spiritosa richiesta rivolta al pubblico fattosi improvvisamente austero. Platea e palchi variegati ma, si sa, Verdi è nel DNA di Parma e qui lo si respira prima ancora di ascoltarlo. «Basta rendere Verdi una drag queen e viene giù il teatro». Ma, ha motivato Micheli passando dal faceto al veritiero «quando il genio è così vasto, il contenitore è sconfinato». Un genio che ha più volte dato prova di anticonvenzionalità. «Verdi ha preso una prostituta (Alphonsine Plessis / Marguerite Gautier / Violetta Valery) e l’ha fatta diventare TEATRO» ha ricordato il regista, lasciando spazio al cameo del soprano Adriana Iozzia.

Uno spettacolo divertente e serio, spiazzante e rassicurante, popolare e colto, dissacrante (con garbo) e rispettoso al contempo, rivolto a tutti quelli che compiono un atto di fede nel credere alle fantasmagoriche vicende narrate nelle opere.





Recensione Maria Luisa Abate
Visto a Parma, al Teatro Regio, Festival Verdi, il 27 settembre 2021
Contributi fotografici Roberto Ricci