Un mondo colorato e visionario, ironico e onirico, popolato da una umanità variegata che sovverte qualsivoglia distinzione o appartenenza: donne barbute, uomini in tutù, trapezisti e marinai, giacche militari e mutande sopra i pantaloni, pastrani e giarrettiere. Ma anche maggiordomi impettiti nelle divise, distinti signori in cappello a cilindro, ufficiali con onorificenze sul petto. Travestiti e benpensanti: due mondi a confronto. Contrasti, proprio come nella musica di Verdi in sublime bilico fra tragedia e commedia. In “Un ballo in maschera” la maschera è regola di vita quotidiana. Grazie alla maschera ingannatrice nulla è come appare, ma è anche uno strumento di libertà perché permette di esprimere la vera natura di ciascuno, senza le costrizioni dettate dalla società, senza sovrastrutture esterne, senza etichette di genere. Persone che, nella loro ambiguità sessuale, sono specchio della multiformità della natura umana, e che, con i corpi contorti all’indietro, in posizioni innaturali, abbattono muri e valicano confini, per poter andare oltre i limiti, propri o imposti. Una messa in scena che ha generato gli effetti desiderati della visionarietà: la capacità di scatenare nello spettatore un personale flusso d’immaginazione.

Un allestimento moderatamente provocatorio, molto moderatamente, tanto da aver proiettato nella galassia dell’assurdità le critiche piovute da parte di menti vetuste, con il paraocchi, e immemori dell’anticonformismo di Verdi, o da parte di chi, senza fare nomi (per non sottostare al gioco/tornaconto mediatico) farebbe meglio a limitare i propri spropositi alla sola materia di sua specifica pertinenza. Il Festival Verdi, proprio come Verdi stesso, sa guardare avanti attingendo al passato e ci auguriamo continui a farlo anche in futuro.   

In questa produzione mimi e performers, su movimenti coreografici di Virginia Spallarossa, hanno rivestito un ruolo essenziale, così come i costumi magnificamente estrosi di Richard Hudson, autore pure della scenografia, basata sulle semitrasparenze di grandi tendaggi, valorizzati dalle luci fredde e plastiche, per lo più verde acido, di Giuseppe Di Iorio. Una statua alata, di classica bellezza non fosse stato per il capo rasato, si è mossa sulla scena a velocità impercettibile. Le grandi ali dispiegate, una gamba sollevata e un piede in procinto di staccarsi da terra per spiccare il volo. Il suo essere posta su un monumento funebre, ne ha fatto un presagio di morte. E anche, è inevitabile pensarlo senza che un groppo salga alla gola, un elemento anticipatore della scomparsa del suo ideatore Sir Graham Vick, che le complicanze da covid hanno portato via prematuramente lo scorso luglio. L’opera si è aperta, prima ancora della prima nota, con il funerale del re, il cui ampio manto viola bordato di ermellino era disposto ai piedi del catafalco ed è stato poi raccolto dai valletti, che hanno così dato il via alla vicenda svolta in flashback. Il pubblico, entrando nella sala, si è metaforicamente accodato agli intervenuti alla veglia funebre, cortigiani vestiti a lutto per l’occasione, senza sottacere la loro vera natura: anche qui donne barbute e stravaganti signori con cappelli e ombrelli aperti che hanno ricordato certi quadri di René Magritte. E non poteva non tornare alla mente un’altra circostanza analoga, da pelle d’oca: l’ultima Traviata di Zeffirelli, anch’essa andata in scena postuma, che si apriva con la processione funebre di Violetta.

“Un ballo in maschera (Gustavo III)”: il titolo indicava che al Teatro Regio di Parma è stata proposta la versione primigenia dell’opera, frutto di un attento studio filologico. Il libretto qui utilizzato, per il quale Antonio Somma si ispirò a Eugène Scribe, è quello d’ambientazione svedese, attinto a un autentico fatto di cronaca, ossia l’assassinio avvenuto nel 1792 del Re Gustavo, sul quale trapelavano voci di omosessualità, e che fu un sovrano spietato tuttavia lungimirante, per avere, ad esempio, abolito la pena di morte. La citazione esplicita fu cassata dapprima dalla censura borbonica a Napoli, poi da quella pontificia a Roma nel 1859 che Verdi infine accettò, apportando poche modifiche, mutando i nomi e traslocando i fatti da Stoccolma alla Boston coloniale, retta da un governatore.

Elemento ricorrente della messa in scena, una fila di sedie perfettamente allineate, di varie fogge, mancanti dell’imbottitura nello schienale ad amplificare il vuoto, politico e di potere ma anche dell’amore negato. Vick infatti utilizzava il suo sguardo visionario e la propria sensibilità per porre in luce la contemporaneità dei valori e dei sentimenti messi in musica, e per raccontare le ipocrisie e le incoerenze del nostro vivere. Ritroviamo ciò, ad esempio, in Amelia, intenta a giocare con il suo bambino che indossava una corona da re di latta, e il cui tamburello lei ha usato come urna per estrarre a sorte il nome di chi avrebbe dovuto uccidere l’amato, compiendo il regicidio.

«Cosa resta per il re che ha tutto? – scriveva Graham Vick nelle sue note di regia – Piaceri proibiti? Rischio? Rivoluzione? Oppure castrare l’establishment per conquistare l’amore del popolo?… del suo paggio? della moglie del suo migliore amico? Lo stile di vita revisionista dello svedese Gustavo III gli ha procurato molti amici e molti nemici, mentre lui stesso corteggiava il pericolo con tutto l’autodistruttivo fulgore di un artista la cui più grande creazione sarà la sua stessa morte».

Invece il regista Jacopo Spirei si è limitato a spiegare, citando lo stesso Verdi, che trattasi di “un gioco del destino, uno scherzo o una follia”. A lui è passatoil testimone lasciato da Graham Vick, alla cui memoria è stata dedicata la XXI edizione del Festival Verdi “Scintille d’Opera”. Spirei è stato a lungo assistente del Maestro per poi aver acquisito una propria posizione di spicco in ambito registico. Viene naturale chiedersi quanto ci sia di Spirei, probabilmente molto, e quanto di Vick, probabilmente ‘solo’ l’idea perché purtroppo non ha fatto in tempo a venire a Parma per realizzarla. Ma che importa? È inutile chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina (ci sia perdonato il parallelo: le cronache riportano che, nella serata inaugurale, con questo appellativo sia stata tacitata una voce di dissenso dal loggione). Il risultato a quattro mani, dove le due personalità registiche si sono fuse assieme, è stato splendido e teatralmente efficace. Ciò basti a celebrare degnamente Vick inchinandoci alla sua grandezza, e ad applaudire con entusiasmo il genio di Spirei.
 

Il succitato bilico verdiano fra tragedia e commedia ha costituito fondamenta su cui è stata costruita la direzione e concertazione di Roberto Abbado, salito sul podio della Filarmonica Arturo Toscanini cui si è aggiunta l’Orchestra Rapsody per gli interventi sul palcoscenico, e del Coro del Teatro Regio di Parma, ottimamente preparato da Martino Faggiani. I coristi erano collocati su una struttura a palco semicircolare che ha modernamente proseguito le linee architettoniche del Regio, assicurato il distanziamento, garantito una acustica ottimale e non ultimo appagato lo sguardo con le sue belle linee. Una direzione giostrata con sapienza e con gusto sopraffino, tra cupezze e bagliori di luce, tra momenti concitati e anse di placidità. A essere eseguita, è stata l’edizione critica di Ilaria Narici, che ha apportato un contributo importante alla conoscenza di questo titolo verdiano.

Di prim’ordine gli artisti del cast, tutti in stato di grazia. Piero Pretti ha vestito con nobiltà, attoriale e musicale, i panni di Gustavo III, cui ha dato voce tenorile bellissima, attentamente curata, ben dosata nei volumi e negli accenti. Mezzi importanti e ottimamente gestiti anche per Maria Teresa Leva, che si è immedesimata nel personaggio di Amelia, dibattuta tra sentimenti contrastanti, con trasporto emotivo. Al debutto come Conte Gian Giacomo di Anckastrom, Amartuvshin Enkhbat si è confermato una delle più belle voci baritonali in circolazione, di eccezionale caratura per il timbro rotondo, caldo, avvolgente, per l’ottimo fraseggio e una espressività basata sui dettagli. In questa versione “la sibilla” Ulrica, per Spirei una maîtresse capace di intuire oltre, era Anna Maria Chiuri, interprete di razza, dalla vocalità incisiva che, nei registri bassi, ha saputo assumere magnifici toni taglienti.

Era al debutto come Oscar Giuliana Gianfaldoni, ruolo en travesti qui declinato anche al contrario, quando il paggio si è travestito da baiadera per recarsi nell’antro/postribolo della sibilla. Per lei, agilità vocali, omogeneità in tutta la gamma, e la freschezza dovuta alla giovane età abbinata a una matura capacità interpretativa. Completavano onorevolmente il cast Fabio Previati, Cristiano; Fabrizio Beggi, RibbingCarlo Cigni, DehornCristiano Olivieri, Ministro di Giustizia; Federico Veltri, Un servo del Conte, già allievo dell’Accademia Verdiana.



Recensione Maria Luisa Abate
Visto al teatro Regio di Parma, Festival Verdi, il 15 ottobre 2021
Contributi fotografici @Roberto Ricci