30 e lode al baritono Luca Micheletti.

L’opera Rigoletto, si sa, è ambientata a Mantova dopo che la censura costrinse Giuseppe Verdi ad abbandonare l’idea originale della corte francese, in favore di una casata ormai estinta (in realtà sono ancora oggi al mondo discendenti dei rami cadetti Gonzaga) e che non potesse quindi offendersi per le dissolutezze con le quali veniva descritta. Il regista Arnaud Bernard ha privilegiato toni cupi nell’allestimento che, dopo aver debuttato nel 2011 ed essere tornato al Filarmonico di Verona nel 2016, è stato felicemente riproposto in questa stagione 2022, nella ripresa di Yamal das Irmich. È innegabile che buona parte del successo sia ascrivibile alle scenografie di Alessandro Camera, che ha immaginato una Mantova frutto della fantasia, tuttavia fedele nell’averla ricreata come gioiello del Rinascimento. E dell’Umanesimo.

Infatti, nell’idea registica – per la verità assai sfruttata in vari contesti e qui purtroppo lasciata cadere dopo lo spunto iniziale – la prima scena si svolge in un teatrino anatomico dagli spalti lignei. Un manichino e un “esemplare” in carne ed ossa vengono studiati dai dottori: la scienza medica cinquecentesca, ancora agli albori, spingeva a esaminare con curiosità sia la pelle scura del moro sia la gobba del buffone di corte. Poco dopo, una fanciulla viene posseduta sopra il tavolo per le dissezioni. A contornare il tutto, a perdita d’occhio verso l’alto, una grigia polverosa libreria stipata di volumi, come sfondo fisso. Il regista quindi immagina un luogo che la disinvoltura dei costumi morali non rende sfrenatamente allegro, bensì tetro, malato, non senza un certo grado di depravazione. Accantonate pertanto ulteriori delineazioni psicologiche, Bernard focalizza prevalentemente l’ottica sulle pulsioni terrene, utilizzando egli pure una concretezza quasi scientifica.

L’emiciclo anatomico ruota e si scompone per svelare la dimora di Gilda, una elegante costruzione cilindrica che richiama il tempietto del Bramante, anch’essa girevole per mostrare, oltre all’esterno, uno spaccato del proprio interno con la scala a chiocciola. Nell’ultimo atto, un barcone coperto, immerso tra le nebbie dei laghi formati dal Mincio, è la tenebrosa abitazione del sicario Sparafucile e della sorella prostituta Maddalena. Dalla retrostante libreria, come si diceva elemento fisso, durante il temporale, pochi attimi prima del delitto, cade una pioggia di fogli bianchi, a simboleggiare la purezza di Gilda spazzata via dalla brutalità degli elementi. Il tavolo anatomico, la casa tempietto, la barca dell’assassino hanno preso il posto l’uno dell’altro: fulcri del moto circolare della vicenda, fino alla sua tragica conclusione.

Sul podio, Francesco Ommassini si è profuso per porre in risalto le molteplici anime del dettato verdiano: l’amore romantico di Gilda, l’amore paterno di Rigoletto, il sesso senza amore del Duca, il cinismo della corte. Ponendo il tutto sotto una lente ricercatamente cupa andata di pari passo con la regia e prediligendo tempi sostenuti, nel primo atto quasi frenetici, che hanno alimentato quella tensione drammatica che Verdi, proprio con questa opera, innalzò a vette sublimi. Il direttore non ha demonizzato la tradizione che lasciava margine agli interpreti, e anzi aveva preannunciato che «in questa produzione si potranno ascoltare acuti e puntature della prassi esecutiva dell’Opera del primo Ottocento solo quando non cozzano con esplicite indicazioni musicali e teatrali dell’autore». L’Orchestra della Fondazione Arena era nuovamente posizionata fuori della buca, con conseguente maggior impatto sonoro (comunque tenuto a bada dalla grande esperienza dei maestri): una decisione a suo tempo dettata dalle norme anticovid, meno comprensibile ora che le suddette norme sono in buona parte decadute. In altre parole, nello stesso spazio della platea, orchestrali distanziati e spettatori ravvicinati.

Artista avvezzo a mietere successi internazionali, una rivelazione per il Teatro Filarmonico di Verona dove è giunto per la prima volta e dove ha scritto una pagina che non è esagerato definire indimenticabile, il baritono Luca Micheletti nel ruolo di Rigoletto. Voce di razza in un artista completo, proveniente dalla prosa e dalla regia (Premi Ubu e Pirandello, da poco insignito del premio per il miglior spettacolo musicale in Giappone come protagonista di Macbeth diretto da Riccardo Muti). Raccolto nei suoi pensieri in “Pari siamo”, travolgente in “Cortigiani vil razza dannata” e generoso nel bissare, assieme al soprano, la cabaletta “Sì, vendetta, tremenda vendetta” che ha letteralmente mandato in visibilio il pubblico. La voce è stata da 30 e lode per il timbro magnifico, per la padronanza nella gestione dei mezzi compreso il fraseggio, per il sapiente dosaggio delle sfumature coloristiche che hanno prodotto esiti di grande commozione nella resa del personaggio. Non ultimo, il carisma, il magnetismo che il cantante ha sprigionato sul palco. I suoi diversi trascorsi sono emersi evidenti nella parte attoriale. Micheletti infatti è un bell’uomo sprizzante fascino, caratteristica che ha saputo abilmente declinare nel vestire, con una credibilità che va sottolineata, i panni dell’essere gobbo e deforme, di cui ha nobilitato il dolore. E, perché no azzardiamo, ha dato un altro significato a quel “per compassion mi amò” riferito alla mamma di Gilda. Pur consci di spingerci troppo oltre nelle nostre personali elucubrazioni di scrivente, piace pensare che, forse, quell’angelo lo abbia amato non per pietà ma perché in lui ha visto l’interiorità dell’uomo e non l’anomalia del corpo. La bravura di Micheletti è emersa anche nella capacità (troppo sfumata nella regia di Bernard) di delineare la multiforme psicologia di Rigoletto: buffone, padre, vittima, prevaricatore e prevaricato, capace di un amore infinito. Una interpretazione che, a diritto, può essere presa come punto di riferimento.

Ha ottimamente figurato Eleonora Bellocci, che ha donato a Gilda l’indispensabile freschezza giovanile congiuntamente alla capacità, assai evidente pur presentando margini di miglioramento, di giostrare tra colori interpretativi che vanno dal romanticismo al dramma, dall’animo gioioso a quello dolente, dalla timidezza alla determinazione. Di conseguenza, il soprano ha virato da morbidi pianissimo, a note ben centrate, ad acuti svettanti. Lo spavaldo Duca sciupafemmine aveva lo squillo ampio del tenore Ivan Magrì, reduce, tra gli altri successi, da quello con i complessi artistici areniani nella tournée omanita, attento ai segni verdiani e a impostare una linea stilistica non priva di finezze, e con questa a contrappuntare il carattere del personaggio, sbruffone e sprezzante, abile ingannatore.

Gianluca Buratto, dalla voce morbida eppure penetrante, è stato uno Sparafucile meno tenebroso rispetto al solito, bensì, con maggiore sottigliezza interpretativa che va lodata, spavaldo nella sua lucidità d’assassino. La di lui sorella Maddalena era il mezzosoprano Anastasia Boldyreva, dal timbro scuro declinato in appropriata carnalità espressiva. A completare il cast, Giovanna Agostina Smimmero, il Conte di Monterone Davide Giangregorio, i cortigiani Marullo e Borsa Nicolò Ceriani e Filippo Adami, il Conte e la Contessa di Ceprano Alessandro Abis e Francesca Maionchi. Infine l’usciere di corte Nicolò Rigano e come paggio Cecilia Rizzetto. Un applauso speciale a Ulisse Trabacchin, Maestro del Coro ben destreggiatosi in questo titolo verdiano dal quale, proprio per la sua notorietà, ci si aspetta il meglio. Così è stato.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al teatro Filarmonico di Verona il 27 febbraio 2022
Contributi fotografici: Foto Ennevi