Due cast: Placido Domingo sul podio, Oksana Dyka, Ruth Iniesta, Yonghoon Lee. Preceduti da Anna Netrebko, Yusif Eyvazov, Maria Teresa Leva e Marco Armiliato sul podio.

Quale ultimo titolo a debuttare nel 99° Opera Festival è tornato, sul grande palcoscenico sotto le stelle dell’Arena di Verona, il fiabesco allestimento di Franco Zeffirelli ideato nel 2012, che ha rinnovato la sua magia e scatenato il celebre effetto “wow” quando le paratie ornate da dragoni si sono aperte e hanno lasciato vedere la città imperiale di Pechino rifulgente d’oro.

Del resto, Puccini e i suoi librettisti Adami e Simoni, ispirandosi all’omonima fiaba teatrale settecentesca di Carlo Gozzi, hanno collocato la vicenda “al tempo delle favole”. Indicazione che il compianto regista e scenografo fiorentino ha messo in scena unendo vari fattori, dall’esotismo alla spettacolarità, dal gusto cinematografico alla propensione per il kolossal, con estrema coerenza sia drammaturgica che musicale, fattore quest’ultimo troppo spesso trascurato e del quale Zeffirelli ci ha lasciato in eredità una lezione magistrale. Zeffirelli ha avuto il merito di tradurre in immagini di vivida immediatezza la fantasmagoria di tinte e il lirismo dei sentimenti espressi dalle note di Puccini, con la consueta attenzione minuziosa per i particolari, siano essi descrittivi oppure riferibili ai caratteri dei personaggi, i quali hanno vestito gli sfarzosi costumi del premio Oscar Emi Wada.

Nel ripetersi del rito operistico, si sono ancora una volta contrapposti due mondi: quello di Liù e Timur, immerso nel blu grigiastro e polveroso dello scalpiccio delle “mille ciabatte” dei popolani, e quello del potere rilucente e capace d’irretire di Turandot e dei ministri, delle ancelle e dei dignitari, delle guardie e dei sapienti, tra fremere di ventagli e sfilare di insegne.

A dirigere l’opera – è superfluo ricordarlo, completa del finale scritto da Franco Alfano sugli appunti che Puccini lasciò alla sua morte – Marco Armiliato, anche in questa circostanza salito sul podio della valente Orchestra areniana dimostrandosi attento alle esigenze della compagnia di canto ma anche dell’autore, tra echi orientaleggianti, urgenze drammatiche e aperture liriche a disegnare un discorso equilibrato.

Il cast della serata inaugurale ha visto l’atteso ritorno della coppia d’arte e di vita formata da Anna Netrebko e Yusif Eyvazov, ormai habitué dell’Arena (non ringrazieremo mai abbastanza il sovrintendente e direttore artistico Cecilia Gasdia per i molti nomi stratosferici che ha portato nell’anfiteatro, facendo rivivere oggi i fasti di un passato straordinario) e quest’anno impegnati anche in Aida. I due avevano già rivestito i ruoli di Turandot e Calaf lo scorso anno e hanno entrambi confermato una forma smagliante.

La “diva” Anna Netrebko ha fatto prevedibile, nondimeno entusiasmante sfoggio di tecnica eccelsa, di dizione ineccepibile, di fraseggio espressivo, oltre che degli squilli svettanti e dell’eleganza della linea stilistica. Il soprano russo è tutto un colore, tutta una sfumatura; le sue mezze voci, i suoi filati, sono da ascoltare in religioso silenzio. Non ultima, la perlacea opalescenza della voce prestata alla figlia del Cielo, alla Principessa di gelo sotto la cui ostentata freddezza cova, pronto a emergere, il calore di donna, con il proprio carico di sentimenti. A rubarle quel bacio che fa cadere in lei ogni muro erto a protezione interiore, Yusif Eyvazov, Calaf dal fascino misterioso, ottimamente centrato nella parte. Il tenore azero, dalla linea di canto raffinata, che ha supportato con un bagaglio tecnico destreggiato con intelligenza, ha brillato per il fraseggio fluido e per l’interpretazione giocata su dinamiche ben dosate, che hanno lasciato spazio ai generosi slanci tenorili: il “Nessun dorma” è stato bissato a grande richiesta.

Una nota di merito al soprano Maria Teresa Leva nelle vesti dell’ancella Liù, dal carattere dolce, affettuosamente devota al suo signore, dai mezzi importanti sfociati nell’emissione morbida e fluida, con bellissimi filati trasparenti, toccando il culmine espressivo in un vibrante (ma con voce ferma) “Tu che di gel sei cinta”. Il vecchio re tartaro spodestato Timur era Ferruccio Furlanetto, un nome di spicco dai trascorsi più che gloriosi che meritano rispetto.

Le tre maschere erano Gëzim Myshketa, un Ping di extralusso che ha saputo imprimere una marcia in più al trio dei dignitari di corte, che si completava con i sinergici Matteo Mezzaro e Riccardo Rados, rispettivamente Pong e Pang. E poi il notevolissimo, incisivo Imperatore Altoum di Carlo Bosi, alla sua ennesima prova ineccepibile. Un bravo anche al Mandarino Youngjun Park. Bene si è destreggiato il Coro preparato da Ulisse Trabacchin, con le voci bianche A.d’A.Mus. di Marco Tonini, sempre lodevoli anche dal punto di vista della presenza scenica. Si è distinto il Ballo coordinato da Gaetano Petrosino, sulle coreografie anch’esse improntate a una estrosità fiabesca, disegnate da Maria Grazia Garofoli.
Repliche, con l’alternanza di vari cast, fino al 2 settembre 2022.

CAST ALTERNATIVO: PLACIDO DOMINGO

La penultima replica di Turandot ha fatto parlare la stampa, specializzata e non, in termini poco lusinghieri. Dopo le difficoltà incontrate la “Night” precedente in veste di cantante nel gala a lui dedicato (vedi recensione DeArtes qui), Plácido Domingo si è mostrato fuori forma anche nel ruolo di direttore d’orchestra, condizione accentuata dalla scarsità delle prove che è stato possibile effettuare. Il gesto direttoriale elegante è parso stanco, tanto da aver faticato a tenere assieme buca e palco, più volte scappati al controllo. Sui tempi assai dilatati, i protagonisti hanno a tratti cercato accelerazioni, anch’esse problematiche da gestire, mentre il Coro, istruito da Ulisse Trabacchin, e l’Orchestra dell’Arena si sono avvalsi della loro professionalità e della dimestichezza con questo impegnativo titolo per risolvere la recita.   

La principessa di gelo era il soprano ucraino Oksana Dyka, la quale possiede una vocalità sontuosa, dai volumi appropriati al ruolo, come anche le dinamiche: una potenza che si è fatta apprezzabilmente tagliente nelle zone più impervie della tessitura che Puccini ha riservato a Turandot. Notevole il suo passaggio dalla implacabile crudeltà degli enigmi imposti a quanti aspirino alla sua mano, alla titubanza di una donna che si scopre improvvisamente innamorata, sentimento al quale la sua tempra regale fa comprensibilmente fatica ad abbandonarsi.

Il principe ignoto Calaf aveva tutta l’irruenza tenorile del sudcoreano Yonghoon Lee, al suo debutto in Arena, luogo non facile da affrontare al primo impatto, tanto più se questo avviene in una serata problematica. La voce c’è tutta, bella, ma presenta ampi margini di crescita sia nella gestione dei mezzi, utilizzati con slanci spesso forzati (vedi il celeberrimo “Nessun dorma”, bissato), sia nella costruzione del personaggio.

È risultata la prova migliore della serata quella del soprano spagnolo Ruth Iniesta, Liù dolce e sensibile, fermamente devota al suo vegliardo signore, dal timbro suadente e levigato, capace di toccare i cuori in “Tu che di gel sei cinta”, culmine di un percorso espressivo che il pubblico ha premiato con applausi convinti. Incisivo e di grande dignità il Timur di Riccardo Fassi. Un cameo significativo per Chris Merritt, elegante Imperatore Altoum. Le tre maschere erano impersonate da Biagio Pizzuti, sempre corretto, che ha condiviso doti di espressività vocale e scenica con Matteo Mezzaro eRiccardo Rados, rispettivamente Pong e Pang. Ha completato il cast il Mandarino Youngjun Park.

Recensione Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 4 e il 26 agosto 2022
Contributi fotografici: foto Ennevi

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