Quanti, adulti e adolescenti, non avessero avuto dimestichezza con la musica d’avanguardia, dalla dodecafonia all’elettro-acustica, di Luciano Berio non possono che essersene innamorati avendo assistito a Berberio”, probabilmente lo spettacolo più bello tra i molti belli dell’edizione 2018 di Segni New Generations Festival a Mantova.
Come suggerito dal titolo, la performance della belga Zonzo Compagnie, poi rappresentata anche al Roma Europa Festival, ha ruotato attorno al compositore italiano scomparso nel 2003. Alle sue pagine, e ad altre di varia provenienza, ha aggiunto una traccia visiva, filmata e recitata, in forma di suggerimento: una ipotesi tra le molte possibili, che sono state intrinsecamente suggerite.
Un’idea teatrale non nuova all’apparenza ma originale nell’attuazione e dagli esiti stupefacenti. Infatti la maggior parte dei progetti che contemplano l’unione tra musica, video e attorialità risultano spesso slegati, come se un elemento fungesse da sfondo agli altri o viceversa. In questo caso no. La compenetrazione tra i diversi linguaggi è stata sorprendente. I fattori, tangibili e intangibili, si sono mossi seguendo un unisono subito splendidamente e giocosamente sovvertito, per dimostrare che lo stesso unisono è solo un’opinione, una delle tante. E questo, è Berio.
All’inizio lo scricchiolio di un rotolo di scotch applicato sul pavimento, per circoscrivere una zona scenica, si è integrato alla voce che si è inerpicata su note immaginarie, ardite, inafferrabili. Sullo schermo sono apparse delle labbra scarlatte che pronunciavano parole inudibili. All’interno della bocca è spuntato un occhio che si è ingrandito a ogni sbattere di ciglia. Il contenuto dello spettacolo era riassunto in questo incipit, che ha dimostrato come i sensi non generino percezioni univoche ma caratterizzate da infiniti significati in continua evoluzione. Gli interpreti hanno interagito con le proiezioni, a volte tratte dalla realtà e a volte disegnate a cartoon. Nel caso del violista lo hanno sdoppiato, capovolgendolo sopra o sotto il pentagramma, facendolo duettare con la copia di sé.
Luciano Berio è autore ancor oggi di non facile approccio e le immagini hanno suggerito una possibile decodifica all’innovazione del suo dettato, come solo i migliori registi sanno fare. In questo caso, artefice è stata Letizia Renzini, ideatrice assieme a Revue Blanche. Il tessuto sonoro ha miscelato brani dal vivo e registrati, ibridati da un nugolo di citazioni, dalla prima moglie Cathy Barberian a Morricone a Ravel e altri, che hanno innestato melodie sulle armonie, sui rumori del quotidiano o su effetti elettronici, e perfino hanno integrato un frammento della vera voce di Berio che spiegava quale fosse la musica del futuro. Lore Binon soprano, Anouk Sturtewagen, arpa, Caroline Peeters, flauto, Kris Hellemans, viola, hanno utilizzato gli strumenti allo stesso modo della gestualità attoriale o degli oggetti: come idiomi per farsi comprendere da tutti gli abitanti di una moderna città di Babele.
Un exploit multimediale e multisensoriale inquadrato entro una logica-non-logica consequenziale, il cui senso compiuto ha trovato giustificazione nell’istinto ludico, nella necessità insopprimibile di una espressività senza limiti e senza barriere. In soli cinquanta minuti si è susseguita una incredibile varietà di forme in perenne trasformazione, che ha fatto tangibilmente capire come tutto sia mutevole, basta cambiare l’ottica attraverso la quale il nostro occhio guarda, o il nostro orecchio ascolta. Al termine del fantasmagorico viaggio, l’arpa posta su una pedana mobile è diventata l’albero di una nave sulla quale tutti gli interpreti sono saliti, per rivolgere come Ulisse la prua verso nuovi lidi, verso altre scoperte emozionali. Una laude alla creatività priva di vincoli. Un inno alla libertà.

Recensione di Maria Luisa Abate

Visto a Mantova, Palazzo Ducale, Atrio degli Arcieri, il 30 ottobre 2018
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