Di Maria Luisa Abate. Mantova, Teatro Sociale: «Il mio futuro è un presente allargato. Ogni alba è una promessa e ogni tramonto è un arrivederci»
Il rito si è compiuto, un rituale di musica spettacolo sentimento. Un inno alla spontaneità e – perché no, è atto legittimo – all’operazione di marketing. Ascoltando e vedendo Giovanni Allevi ci si rende conto di quanto aspetti apparentemente contraddittori si intersechino, vadano di pari passo, si uniscano in un abbraccio emanante un calore che conquista il pubblico. Ci si chiede quanto, nella costruzione della sua personalità artistica, abbia influito la vita privata, entrambe complesse. Ci si domanda quanto l’immagine possa risultare egualmente se non più determinante della musica stessa. Giovanni Allevi è un unicum di collettivo e di privato, di musica e di parole, di sostanza e di contorno, di forza e di fragilità: elementi che, in lui, non potrebbero sussistere singolarmente. Egli stesso pone sotto i riflettori questa sua natura multiforme, che autoalimenta e con la quale alimenta il pubblico che lo adora.

Ennesima data sold out per la stagione al Teatro Sociale di Mantova con il concerto di Giovanni Allevi, siglato nella sezione “musica classica” (ci sarebbe da discutere ma non avrebbe senso proseguire sulle inutili polemiche del passato) e che ha confermato la sua essenza di viaggio emozionale. Le sue composizioni crossover, che riscuotono successo in tutto il mondo, seguono per lo più uno schema ricorrente e vincente: una serie di arpeggi sulla quale si erge nitida una linea melodica che fa della semplicità il suo punto di forza, il suo pregio, il suo tratto distintivo.
Allevi, oltre a essere diplomato sia in pianoforte che in composizione, è laureato in filosofia (con il massimo dei voti e la lode). Una duplice anima, unita alla ben nota gracilità psicologica, che rende inscindibile l’artista dall’uomo. O per meglio dire dal fanciullo, visto che possiede la magnifica dote di restare eternamente bambino, l’invidiabile capacità di stupirsi di tutto, di vedere il mondo con occhi perennemente meravigliati e sorridenti. Proprio il sorriso non lo abbandona mai durante l’intero concerto e non è frutto dei muscoli facciali ma sgorga direttamente dal cuore, senza intermediazioni, con sincerità disarmante ed empatica.
Il pianista e compositore annuncia uno ad uno i brani, ne illustra in poche parole la genesi o il significato, farcendo le introduzioni con qualche pillola di filosofia spicciola. Viene spontaneo domandarsi se la sua musica sia da sola capace di trasmettere determinati stati d’animo, precise sensazioni, oppure se le spiegazioni si rendano indispensabili per entrare dentro ai pezzi. Poco importa perché la formula funziona, seduce il pubblico che ne resta irretito.
Così come funziona e affascina la condivisione con la platea delle private vicissitudini di salute. Già nelle note di sala si preannunciava un concerto “commovente” perché il lungo tour, che ha già inanellato moltissime date e altre ne aggiungerà, segna il ritorno del Maestro sui palcoscenici dopo la lunga e grave malattia che ha tenuto banco sulle pagine di cronaca. Si presenta con un busto che gli sorregge la schiena dolorante, non celato sotto la maglietta ma posto in bella mostra, esibito orgogliosamente come un trofeo della guerra che sta combattendo. A metà concerto usa lo Yamaha a coda per un esercizio di stretching, gesto scenico di routine, descritto nei resoconti di concerti passati ma che viene magicamente percepito come hic et nunc.
Continua a sorridere sotto la cascata ipertricotica di riccioli che si sono fatti grigi, parlando nel microfono con un filo di voce e spiegando che le sue mani hanno dei tremori, che soffre di parestesia. «È come se degli spilli mi bucassero i polpastrelli: è l’ideale per suonare il pianoforte!» dice ridendo con simpatia travolgente. Se sbaglia qualche nota (poche) è colpa degli antidolorifici. «Per lo stesso motivo, se doveste sentire qualcosa di geniale, è merito degli oppiacei». Altra risata del pubblico.
La spettacolarizzazione del dolore? Un escamotage pietistico per riempire la sala? Una strategia di marketing studiata a tavolino? Assolutamente NO. Allevi si muove su un altro pianeta, ha il pregio della sincerità e l’onestà dei suoi sentimenti appare lampante e fuori da ogni dubbio anche nel ripetersi degli stessi schemi d’approccio al pubblico. È la bella persona che tutti vorremo avere come amico o come vicino di casa. La persona che tutti vorremmo abbracciare e da cui vorremmo essere abbracciati.
«Mi hanno detto che la mia malattia (un mieloma multiplo) non può spingersi molto in là nel futuro. Dicono così ma io non ci credo!» Il dottore in filosofia prosegue: «Il mio futuro è un presente allargato. Ogni alba è una promessa e ogni tramonto è un arrivederci».
E via con la musica. Il programma si apre con “Aria” e subito dopo arriva “No more tears”, Non più lacrime, che racchiude due sentimenti, la disperazione di fondo e la grinta di chi non vuole darla vinta al destino avverso. “Kiss me again” è stata scritta alla fine della pandemia, per gioire del ritrovato contatto fisico mentre “Tomorrow”, Domani, è nata durante la lunga degenza in ospedale.
Poi il brano che all’inizio di questa tournée non era riuscito ad eseguire a causa dei tremori che, spiega, derivano in parte dall’infermità e in parte dalle problematiche legate all’ansia. Tra il futuro che gli lascia la malattia e il futuro dell’umanità e del pianeta, il passo è breve. Un invito a scrollarci di dosso «la cappa della tecnologia» e a ritrovare il «contatto» con la natura e assieme ad essa il «contatto» con il sacro. È illuminante l’uso di un verbo che allude a una vicinanza fisica anche con ciò che è immateriale. “Our future” è stato eseguito anche alla COP 26, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici tenutasi a Glasgow nel 2021. I tremori alle mani si fanno visibili, ma il Maestro ce la fa a superare lo scoglio e il solito svolazzo nell’aria delle dita che abbandonano i tasti bianchi e neri lo conferma.
Il rapporto con il sacro ritorna nel ricordo di don Mauro, con cui Allevi si soffermava in dissertazioni spirituali e teologiche prima che l’amico rimanesse vittima di un incidente d’auto. Da lui Allevi sente di aver preso in mano il testimone, facendosi difensore della necessità per l’uomo di ritrovare un rapporto, un «contatto» con il sacro per – sorriso smagliante – recuperare la fiducia nel mondo. È quella che a noi manca e che proviamo, per le due ore del concerto, ad assorbire da lui.
Un giorno, a una passante per strada si ruppe il sacchetto delle mele che aveva appena acquistato e che rotolarono a terra. «Signora, senta che suono meraviglioso!» La donna rispose che sarebbe stato meglio se l’avesse aiutata a raccoglierle, ma la lampadina creativa si era accesa e così nacque “L’idea”, un brano ritmico «sperimentale» che ci ricorda che Allevi è anche un interessante compositore.
Dopo i giorni in cui «sul filo dell’istinto mi sono ritrovato a vivere dall’alba al tramonto» sono venuti i periodi in cui ha vissuto solo di notte, attratto dalla “Luna”. «Nella direzione del notturno tutto si fonde: ciò che ci sta intorno, con la nostra anima». E ancora «il tempo è il cardine del ragionamento», disserta citando lo stoicismo e flashando in un nanosecondo i filosofi vissuti in Grecia ante Cristo e l’imperatore Marco Aurelio. Il balzo all’oggi conduce a “Helena”, suonato con la sola mano destra perché dedicato a un’amica che ha perso l’uso dell’altro arto. Poi “My angel”, l’angelo custode nella cui esistenza afferma di credere, e “Panic” un’indagine musicale sullo stato d’animo attualmente vissuto.
«Il concerto è finito», annuncia. Il pubblico si alza in una standing ovation, non sappiamo dire se rivolta al musicista, all’uomo, al malato o al combattente ma non fa differenza alcuna. «Avete chiesto un bis?». Ne propone due ed è col secondo che Giovanni Allevi ci stupisce, sfoderando la sua carta migliore. «Se nomino il Te Deum di Charpentier probabilmente non vi dice nulla, ma se vi dico sigla dell’eurovisione la riconoscete senz’altro. Facciamo simpaticamente rivoltare nella tomba Charpentier!». Nell’arrangiamento in stile jazzistico-soft-pop abbiamo apprezzato, più che altrove, il valore dell’artista. Un bis, una parentesi, un inciso, un attimo fugace perché la sua musica lo porta altrove, verso lidi extraterrestri, seguendo lo sfarfallio delle dita, la resilienza del corpo, il candore del cuore, la purezza fanciullesca dell’anima.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Sociale di Mantova il 30 gennaio 2025
Immagini tratte dalla pagina facebook di Giovanni Allevi
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