Di Maria Luisa Abate. Parma, Teatro Regio: tris di assi nei ruoli protagonistici; fiori e spade nella regia; attenta ai cromatismi la direzione.
Magnifica, la Giovanna d’Arco andata in scena al Teatro Regio di Parma straripante di pubblico, con la firma di uno dei nomi di maggior spicco del panorama contemporaneo: Emma Dante, arrivata su questo palcoscenico per la prima volta. Le sue regie, anche quelle controverse (non è questo il caso) sono famose per la profondità di lettura e una chiarezza di esposizione non comuni, e fanno sempre notizia.

In questo allestimento del titolo verdiano siamo innanzitutto rimasti colpiti dall’impianto visivo, significante e facilmente comprensibile, la cui bellezza estetica avrebbe potuto vivere di vita propria. Armoniosa la fuga prospettica delle arcate rifacentesi a canoni pittorici (scene di Carmine Maringola realizzate nei laboratori del Regio, luci di Luigi Biondi) e riproposta in diverse situazioni: ora sotto forma di eleganti colonne neoclassiche dorate, ora come festosi pergolati traboccanti di fiori. La linea ricurva di una tela fiorita, somigliante alla lunetta di una pala d’altare, ha infine contornato il busto di Giovanna morente in battaglia, dopo che il suo bianco destriero che le si era accucciato al fianco. Infatti la regista ha seguito con rispetto la trama del librettista Temistocle Solera che nulla ha a che vedere con la verità storica della santa e poco ha a che spartire con la fonte ispiratrice schilleriana. Nell’opera la Pulzella d’Orléans non muore sul rogo ma in combattimento, per poi risorgere per pochi minuti e infine trasfigurare ascendendo al cielo.

Giovanna quindi è stata proiettata in un ambito di pura illibata bellezza. Emma Dante ha focalizzato il proprio sguardo sulla donna che sta dentro la corazza di combattente, sulla sua interiorità posta sullo stesso piano degli ideali. La sua protagonista è forte e pazza, mistica e schizofrenica, un’anima angelica e una figura diabolica. Giovanna è tutto questo assieme, senza dicotomie; è una e tante, come ci ha suggerito il suo doppio che le ha volteggiato attorno. I demoni che le sono apparsi durante le visioni assomigliavano a creature mitologiche del bosco; avevano i sembianti di furie (coreografia Manuela Lo Sicco) dalle bocche nere e dalle vesti con lungo strascico codato rosso (lo stesso colore dell’abito di Giovanna); oppure, avvolti in teli impiccati ai rami della foresta, sembravano larve che si dibattevano all’interno di sacche amniotiche dalle quali stavano per rinascere. Del resto, la sfilata iniziale di soldati reduci dalla guerra aveva già indirizzato in tal senso: i fiori sono sbocciati dalle ferite, e dalle ferite Giovanna li ha colti. Perfino il campo di battaglia cosparso di croci (le else delle spade conficcate nel terreno) era avvolto in un’atmosfera verdeggiante quasi bucolica.

Fiori e spade. Il rapporto costante tra guerra e misticismo incarnato dalla Madonnina portata in processione: una statua mitragliata dai cui fori di proiettile sprizzavano raggi salvifici di luce (invero, chiediamo scusa, con effetto un poco “natalizio”) messa in parallelo a un muro sbrecciato e crivellato di colpi dove erano affisse le foto dei caduti nelle guerre odierne, forse Gaza, forse Ucraina, forse uno dei tanti conflitti dimenticati dalle cronache.

Musicalmente è stata seguita la revisione critica a cura di Alberto Rizzuti mentre i dialoghi di Solera, bruttacchioli in qualsiasi versione, sono stati riproposti nelle censure ottocentesche. Michele Gamba, al suo debutto al Teatro Regio e al suo primo confronto con questo titolo appartenente alla produzione giovanile del bussetano, ha dichiaratamente cercato di imprimere un’atmosfera cameristica per rendere giustizia a quella che ritiene essere più che un’anticipazione della genialità verdiana destinata di lì a poco a esplodere. Muovendosi in condivisione di intenti con la regia (quando i due aspetti vano di pari passo i risultati sono assicurati) e seguito con fiducia dalla Filarmonica Arturo Toscanini, il direttore ha musicalmente posto in risalto le diverse e conniventi anime della protagonista, la sua psicologia complessa e non univoca, indagando con dovizia la varietà coloristica verdiana che ha accentuato anche mediante l’uso delle dinamiche e del fraseggio, creando equilibrio tra i fremiti drammatici, i risvolti intimistici e gli slanci di misticismo.

All’ultima replica, cui noi abbiamo assistito, dopo poche battute prudenti e vibrate, la voce di Nino Machaidze è emersa in tutta la sua solidità, nella capacità volumetrica, in fiati svettanti soprattutto in acuto. Al timbro intrigante dai riflessi d’acciaio eppure caldo, il soprano georgiano, cui potremmo solo permetterci di suggerire un’ancora maggiore cura per la dizione, ha abbinato una recitazione convincente e incisiva, sia che si trattasse di mostrare il lato più femminile e sensibile di Giovanna, sia che fosse impegnata a far emergere il carattere spavaldo e volitivo della guerriera o a mettere in atto le sue granitiche motivazioni di fede.

Di Luciano Ganci sono risaltate le molte doti canore che gli conosciamo. Il Carlo VII del tenore, oltre che ambizioso monarca, si è palesato nella sua umanità non priva di dolcezze, così come morbida è stata la proiezione sfociata in squilli di pregevole fattura. Aggiungiamo la limpidezza del timbro, il fraseggio elegante e le torniture negli accenti a sancire una recita di altissima qualità.

Se Ganci costituiva una felice certezza, è stata una strepitosa sorpresa Ariunbaatar Ganbaatar nei panni dell’intransigente padre di Giovanna, Giacomo. Un meritato trionfo: un boato ha accolto durante i saluti conclusivi il baritono della Mongolia, per il quale non riusciamo a non pensare a un parallelo col suo connazionale Amartuvshin Enkhbat, uno dei migliori baritoni oggi in circolazione, al quale il “nostro” non è certo secondo. Forse è eccessivo parlare, come i melomani più entusiasti hanno fatto, di una “scuola mongola”; sta di fatto che Ganbaatar possiede mezzi eccezionali, entusiasmanti, incantevoli. Voce solida, potente, dallo squillo ben proiettato, dalla tecnica ineccepibile e dall’espressività affinata, il baritono ha saputo scegliere i colori appropriati e dosare con gusto gli accenti. Oltre a ciò la pronuncia era assolutamente perfetta e il suo canto strabiliantemente “italiano” oltre che profondamente verdiano. Dieci e lode.
Notevoli i piccoli interventi di Francesco Congiu, Delil, e di Krzysztof Bączyk Talbot. Come sempre ottima la prestazione del Coro del Teatro Regio di Parma preparato con cura da Martino Faggiani.

In conclusione ci sia consentita una chiosa: è per noi inspiegabile e incondivisibile l’atteggiamento di quanti lamentano la presenza di Verdi anche nella stagione invernale anziché confinarlo nel solo festival a lui dedicato in ottobre. Perché mai Verdi non dovrebbe “regnare” estate e inverno nella terra che gli ha dato i natali? Non mancano gli esempi di città che sono diventate enclavi (la Crusca ci autorizza il plurale) dei loro figli maggiori, basti citare ad esempio Bergamo per Donizetti e Pesaro per Rossini. Perché Parma non dovrebbe essere palcoscenico privilegiato verdiano, dato anche che lo spazio per altri compositori non manca? Passeggiando per le vie del centro, a noi piace scorgere il volto del Maestro in qualche vetrina, ci si apre il cuore nell’imbatterci in un suonatore da strada preso da furore verdiano, restiamo affascinati dall’inseguire le scie musicali che escono da porte e finestre di anonimi palazzi, adoriamo percorrere la viuzza di fronte al teatro rischiarata da scritte al neon con le parole del Và pensiero. Verdi è Parma e Parma è Verdi. Ed è meraviglioso.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma il 1 febbraio 2025
Foto Roberto Ricci
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