Di Diego Tripodi. Bologna, Comunale Nouveau: il cast punto di forza della produzione. Raffinatezza e vivacità nella direzione di Daniel Oren.

“Spero quindi, che l’aver tolto dal novero de’ miei personaggi taluno di quelli che pur sono fra i principali del romanzo, e la morte del Sere di Ravenswood diversamente da me condotta (per tacere di altre men rilevanti modificazioni) spero che tutto questo non mi venga imputato come a stolta temerità; avendomi soltanto a ciò indotto i limiti troppo angusti delle severe leggi”.
Così mette le mani avanti Salvadore Cammarano nella brevissima allocuzione al lettore che precede i versi nel libretto di Lucia di Lammermoor, musiche di Gaetano Donizetti.

Il romanzo cui Cammarano si riferisce è The Bride of Lammermoor di Walter Scott, autore oltremodo celebre, sicché è facile capire l’apprensione che poteva avere circa le libertà prese. Eppure, bisogna dirlo, il risultato di Cammarano e Donizetti supera di gran lunga in termini di costruzione drammatica l’originale di Scott, senza fra l’altro tradirne lo spirito e il caratteristico fascino romantico, bensì risaltandoli con intuito magistrale.

Il lavoro sul soggetto che è alle spalle della Lucia, d’altronde, è operazione affatto inconsueta nell’opera italiana ottocentesca, che ha nell’arte dell’adattamento un aspetto tutt’altro che banale, nella misura in cui i soggetti ne uscivano rigenerati per comunicativa e pregnanza drammatica.

Operazioni simili, a ben vedere, hanno un valore registico e, difatti, la loro lezione avrebbe tantissimo da insegnare alla stessa regia contemporanea che si trova oggi ad agire proprio su quelle opere. Allargare la poesia, prendendosi delle libertà da “limiti troppo angusti”, certo, è questione davvero complicata perché pretende l’entrata in sintonia con il senso poetico e al contempo la sfida di trovarvi un margine d’azione emancipativa.

Certo è che – e Cammarano lo aveva capito bene – fermarsi all’accessorietà narrativa è la strada lastricata dalle buone intenzioni che finisce dritto dritto a “stoltezza e temerità” e troppo spesso (ma soprattutto da troppo tempo) è quanto ci si ritrova davanti agli occhi in teatro.

Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna con Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo, Lucia di Lammermoor è andata in scena con successo al Comunale Nouveau di Bologna dal 20 al 25 febbraio 2025.

Un fondale boschivo era la scena, sostanzialmente fissa – se si escludono alcune ricombinazioni nello spazio di suoi elementi – e al cui centro si ritagliava di atto in atto lo spazio per una diversa e più enigmatica immagine fotografica (alcuni primi piani di fiori, il dagherrotipo di un salasso); presenza fissa, silente e ritto testimone della tragedia, di volta in volta bastone per gli affanni dei vari personaggi, era un tronco dalla chioma solo immaginabile e che risaltava dal colonnato di piante impresse e cartonate. Unica mobilità era affidata alla luminotecnica (a cura di Giuseppe di Iorio) che tingeva questo cuore di foresta di risonanze autunnali e spoglie.

La lugubre clausola dei corni, cui subito risponde un misterioso rullo di timpani, sono i noti segnali di inizio e su di essi comincia l’ingresso dei figuranti, per l’occasione allievi della Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone, e dei membri del coro: due giovani apparentemente amoreggiano, se non che subito lei viene violentemente respinta e sospinta al centro della scena, sulla quale, nel frattempo, nuovi arrivati con andamento da sgherri fanno ugualmente con altre tremebonde e anonime fanciulle. Compare Normanno, parte il coro, sempre nel generale predaggio.

L’idea proposta dal regista Jacopo Spirei, rinforzata dall’abbigliamento da immaginario malavitoso standard (giacche di pelle, canotte e jeans, camicie sormontate da bretelle, giacchette “d’ordinanza”, etc.) è di una Lucia che dalla Scozia gotica e cavalleresca scivola in una sorta di Aspromonte da Anonima Sequestri. Il passaggio si gioca tutto sull’apparente nesso con l’atmosfera da faida della storia. La scena iniziale, invece, con le giovani umiliate e strattonate (presumibilmente prede in sostituzione di quelle che evocherebbe la scena di caccia in cui ci troviamo), è una allusione alla tragedia di Lucia, spinta alla pazzia per delusione e libertà, e un ricondurla alla tematica più prosaica dell’oggettificazione femminile.

In ambientazione simile va avanti tutta l’opera: Enrico veste un gessato adeguatamente al suo rango, Raimondo è un povero “parrino” non si sa bene come finito in certi giri, Edgardo un “picciotto” un po’ sbracato, Lucia una ragazza anonimamente incappottata (non importa, tanto avrà sempre e comunque un abito insanguinato da vestire nel secondo atto), solo Arturo porta una traccia stonata presentandosi al matrimonio incredibilmente in kilt.

La lettura registica, tramite la ricollocazione, non dà solo nuovo arredo alla storia ma, purtroppo, a volte spegne l’idealità dei momenti, abbassandoli, retoricizzandoli o, suo malgrado, dando l’impressione di ridicolizzarli. Nel terzo atto, la carcassa di autobomba, in corrispondenza della scena di Edgardo Tomba degli avi miei, che in effetti era la trovata più attinente all’impostazione scelta, tuttavia non riusciva a suscitare molto interesse; ma di contro, a causa anche all’armeggiare retrostante delle comparse sulla solita falsariga di allusioni mafiose, riusciva soltanto nell’intento di sconcentrare, ossia, sostanzialmente al contrario del suo proposito, di sottrarre.

Il Maestro Daniel Oren ha condotto con grande raffinatezza e vivacità l’orchestra del TCBO, che nelle sue mani si è mostrata in forma, morbida ma felicemente reattiva alle dinamiche e alle articolazioni, sempre marcate ma mai fuori posto: il direttore israeliano ha ricavato dalla partitura donizettiana, miracolosamente screziata, momenti in cui intervenire con scelte interpretative più scoperte e personali, come nel caso d’una certa mobilità di tempo, che nonostante la prevedibilità tuttavia riusciva sempre a sposare le esigenze drammatiche e che sfuggiva i rischi peggiori grazie all’ottima intesa con i cantanti.
La scelta discutibile, ancorché tradizionale, riguarda i numerosi tagli, soprattutto nelle riprese delle cabalette e di intere scene del secondo atto, di cui quello che fa più male è S’avanza Enrico e la serie di dialoghi successivi, un vero peccato che guarda a una prassi in realtà tramontata.

A regalare momenti splendidi, ricchi di premonizioni verdiane, è stato il Coro, preparato dalla Maestra Gea Garatti Ansini.

Punto di forza indiscutibile della produzione erano i cantanti, un cast di grande pregio che, specialmente il triangolo dei protagonisti, non ha tradito l’attesa, fomentata dalla fama e dal chiacchiericcio diffuso fra il pubblico cittadino.

Jessica Pratt è un soprano d’agilità di impressionante disinvoltura; con sprezzo del pericolo e un mirabile controllo si è esibita in tutte le avventurose colorature donizettiane, delle quali il ruolo di Lucia ne è in pratica antonomasia: il suono sempre esatto, limpido, adamantino; il fraseggio morbido e leggiadro; nessun risparmio per la decina di acuti che Donizetti dissemina nella parte, con la quale, d’altronde, la Pratt ha un legame importante, essendo stato con una Lucia il suo debutto europeo. Come ci si aspettava, e così è stato, la sua tecnica ha fatto sfoggio nella Scena di pazzia, nel bel mezzo della quale è stata giustamente applaudita, strappando un immediato bis dei folli gorgheggi. Il celebre passaggio era impreziosito dal suono del “verrofono”, strumento che andava a sostituire, ma con uguale effetto se non migliore, quella glassarmonica immaginata inizialmente da Donizetti: sotto le dita di Philipp Marguerre, cui pure era diretta parte di quegli applausi, ha prodotto suoni vitrei di insospettabile agilità.

Chiaramente di concerto con la direzione, che dunque ha appositamente addomesticato l’orchestra, l’interpretazione ha avuto anche scelte in anticlimax, di intimo lirismo, con il ricorso spesse volte ad un’emissione a mezzavoce (come nel noto duetto Verranno a te sull’aure) che, a dispetto dell’audacia, suonava convincente e coinvolgeva anche gli altri interpreti, in primis Matteo Desole, un Edgardo gagliardo: vocalmente ed espressivamente adatto, appieno dentro le richieste del personaggio, “fogace” e sanguigno, ha esibito una voce squillante e piena, in ottima resa sia nei cantabili più amorosi che nell’eroismo dei passaggi di bravura, riuscito anche nel confronto e nell’equilibrio con la Pratt; a volte si lasciava andare ad accenti forse esagerati, ma in definitiva sempre musicali e coerenti con l’azione.

Non meno esatta è stata l’interpretazione di Enrico da parte del baritono americano Lucas Meachem: con voce sicura, timbro nobile e a volte piegato a una spietata freddezza, contraltava egregiamente l’escandescenza tenorile di Edgardo. Abituato a spaziare nei repertori, compreso le produzioni contemporanee, lo ritroveremo con piacere come protagonista de Il nome della Rosa di Francesco Filidei in debutto a La Scala nel prossimo aprile.

Davvero bene, nei limiti del proprio ruolo e certamente al meglio delle proprie possibilità, tutti gli altri interpreti: Arturo / Vincenzo Peroni, Normanno / Marco Miglietta, Alisa / Miriam Artiaco, tra cui vogliamo menzionare il giovane basso Francesco Leone, che ha prestato in maniera pregevole la sua voce vibrante e profonda a Raimondo.

Recensione di Diego Tripodi
Visto al Comunale Nouveau di Bologna il 25 febbraio 25
Foto: © Andrea Ranzi

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