Di Maria Luisa Abate. Parma, Teatro Regio: a grande richiesta riproposto l’allestimento di Pier Luigi Pizzi, con la direzione di George Petrou.
«La realtà è che Rossini è un benefattore dell’umanità» scrive nelle note di sala il regista Pier Luigi Pizzi. E il direttore George Petrou rincara la dose: «Quando attacca l’iconico primo accordo della famosa sinfonia, tutti sanno già che alcuni dei più grandi momenti della storia della musica operistica stanno per arrivare».
Proprio così. Diciamolo onestamente: oggigiorno le programmazioni puntano all’opera caduta nel dimenticatoio, a quella ingiustamente poco rappresentata. Sia chiaro, operazioni di notevole importanza che ci trovano pienamente d’accordo, non solo per la riscoperta di titoli desueti ma anche nell’ottica di mostrare tutta la diversa bellezza di un genere operistico che non si richiude su se stesso. Non si può vivere di sole Bohème o di Traviate. Però, va altresì detto e sottolineato, se certe opere sono diventate più famose di altre, se sono entrate nella conoscenza e coscienza collettive, talvolta nel gergo parlato della strada, è perché molto semplicemente sono le più belle. Lapalissiano.

Ottimo quindi che il Teatro Regio di Parma stia alternando titoli di rara esecuzione ad amatissimi capolavori come Il barbiere di Siviglia. Lo ha fatto in questo 2025 a furor di popolo, riproponendo l’allestimento che lo scorso anno (ahinoi in nostra assenza) non era riuscito a soddisfare le richieste di pubblico che ora ha nuovamente esaurito tutti i posti.
La regia dell’immenso Pier Luigi Pizzi, ripresa di quella ideata con successo nel 2018 per il Rossini Opera Festival, ha lasciato che la sinfonia si diffondesse in sala a sipario chiuso, senza un surplus di immagini, invitando a focalizzare l’attenzione sul tessuto musicale per l’appunto iconico. Un tempo la regola era questa; adesso invece, è una eccezione.

Dopo il buio denso del genio rossiniano, un’esplosione di bianco, di luce, di giornate radiose (luci curate da Andrea Borelli dall’idea di Massimo Gasparon) che hanno messo allegria addosso. Un’allegria composta nondimeno efficace inserita in una scenografia (sempre a firma di Pizzi come i costumi) d’eleganza minimale fedele a quella pulizia di linee tanto amata dal regista. Il quadro iniziale ha presentato due balconi contrapposti affacciati su una piazzetta, con tanto di lavatoio dal cui rubinetto sgorgava acqua servita per le abluzioni dall’accaldato Figaro. Sempre seguendo lo stile impeccabile del panna tor sur ton, con solo pochi sprazzi di colore nei costumi sobri, ci siamo ritrovati nel cortile e poi all’interno della dimora della bella Rosina e del suo tutore don Bartolo.
Una «tela bianca», l’ha definita lo stesso regista, sulla quale innestare la carrellata di varia umanità immaginata da Rossini e dal librettista Sterbini ispiratisi alla commedia di de Beaumarchais. Una umanità con vizi e virtù che il regista ha voluto ironica e divertente ma senza dimenticare la definizione, nel libretto, di “dramma comico” che presenta quindi un retrogusto serio. Molte e spiritose le controscene, innestate su personaggi che sono apparsi veri in quanto hanno lasciato intravvedere i propri difetti caratteriali, gli interessi egoistici monetari e di cuore; ossia figure nelle quali tutti ci siamo potuti riconoscere. Una messa in scena quindi bella e funzionale della quale ci ha colpiti principalmente la modernità di Pier Luigi Pizzi, classe 1930 grintosamente portata, che è riuscito a strappare risate nei siparietti comici anche tra la parte più giovane del pubblico che affollava, vociante, loggia e loggione.

A rendere di notevole interesse questa produzione è stata anche la decisione registica di conservare tutti i recitativi che normalmente vengono tagliati, riconducendo così all’autenticità un Rossini che è stato eseguito nell’edizione critica, aggiornata, a cura di Alberto Zedda.
Il maestro nato ad Atene George Petrou è salito sul podio dell’Orchestra Senzaspine, formazione bolognese che ha discretamente affrontato questo impegnativo balzo qualitativo. Ogni tanto i volumi sono stati eccessivi e hanno rischiato di sovrastare le voci, ma il direttore ha ripreso subito le redini di un’impostazione improntata alla brillantezza e levità dei colori rossiniani, timbrati con gusto e accentuati nella scena del temporale (che il regista ha fatto intuire fuori dalle finestre). Petrou ha concesso spazio alle fiorettature del canto lasciandone trasparire la raffinatezza, senza calcare troppo la mano, con equilibrio e senso estetico. Da lodare gli interventi di Gianluca Ascheri che ha accompagnato i recitativi al fortepiano. Ennesima prova di ottimo livello del Coro preparato da Martino Faggiani.

Il baritono Matteo Mancini Figaro, recente vincitore a San Marino del premio “Renata Tebaldi” come interprete rossiniano, per la prima volta al Teatro Regio (in sostituzione dell’indisposto Davide Luciano) possiede una voce naturalmente bella, e per lui è facile prevedere una ulteriore crescita dato che ha solo ventisei anni. I movimenti registici impegnativi eseguiti con disinvoltura non lo hanno deconcentrato dal canto, dagli acuti impeccabili e dall’emissione pastosa.

Dalla Russia, Maria Kataeva è tornata a interpretare Rosina. Anch’essa avvezza al repertorio rossiniano, possiede un bel timbro scuro e caldo di mezzosoprano, corposo nella zona centrale e svettante in acuto. Ha presentato una donna attuale, al passo con i nostri tempi, poco frivola e molto intelligente, che flirta con il suo innamorato sfoderando le arti femminili.
Invaghito della giovane, il Conte d’Almaviva era Ruzil Gatin. Il tenore di Mosca, nonostante avesse fatto annunciare di non essere ancora completamente guarito da una indisposizione, ha rivestito a puntino il ruolo che conosce come le sue tasche. La linea di canto è stata sostenuta con garbo e attenzione alle sfumature e ha esternato la giusta dose di ironia nel vestire i panni del personaggio che da tenero innamorato si finge militare ubriaco, per poi anch’egli agire d’astuzia e farla sotto il naso al tutore.

Carlo Lepore era un entusiasmante Don Bartolo, burbero tutore guardiano e risibile goffo aspirante alla mano della sua pupilla. Ha sfoderato una esilarante erre arrotondata (difficile da pronunciare cantando) che ha strizzato l’occhio a quella parmense; o per lo meno a quella accentuata di un celebre spot televisivo. Il basso napoletano è tra gli interpreti oggi più applauditi in questo ruolo che ha padroneggiato con maestria e con espressività, con emissione vellutata e ineccepibile padronanza tecnica. Formidabile il suo sillabato più che veloce, velocissimo, si potrebbe dire a perdifiato, non fosse che il sostegno del fiato non l’ha perso neppure per un attimo.
Profonda la voce del basso di San Pietroburgo Grigory Shkarupa e caratterizzata con spiritosi accenni di balbuzie che lo hanno aiutato a delineare il tentennante Don Basilio. Premiata con un boato di applausi, cosa assai rara per i ruoli di contorno, Licia Piermatteo, tornata a vestire i panni della domestica Berta; il soprano ha ben misurato le dinamiche, aggraziate, soprattutto nell’aria “Il vecchiotto cerca moglie”, esibendo una voce importante e potente nei momenti d’assieme. Figure divertenti e ben inserite sia registicamente che musicalmente Gianluca Failla, Fiorello e Ufficiale, e Armando De Ceccon, irresistibile nei panni dell’anziano servitore Ambrogio.
Come si diceva, teatro pressoché sold out e pubblico entusiasta.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma il 5 marzo 2025
Foto Roberto Ricci
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