Di Olivier Horn. Teatro Regio Torino: notevole la direzione di Valentin Uryupin. Omogeneo e di valore il cast. Qualche perplessità sulla regia di Sam Brown.
«La storia della Dama di Picche non mi entusiasma e quindi non posso che ricavarne un’opera mediocre» (Pëtr Il’ič Čajkovskij al fratello Modest Il’ič Čajkovskij).
La storia dei capolavori è piena di colpi di scena. Nel 1888, quando il direttore dei teatri imperiali di San Pietroburgo commissiona un’opera tratta dal racconto omonimo di Puškin, si rivolge a un compositore poco conosciuto. Quando quest’ultimo si ritira, Modest Il’ič Čajkovskij, a cui è stata affidata la stesura del libretto, pensa a suo fratello Pëtr Il’ič che ha già adattato due opere del grande poeta russo, Eugenio Oneghin e Mazeppa. Segnato dal fallimento de L’incantatrice, suo precedente lavoro, e soprattutto assorbito dalla composizione della sua Quinta sinfonia, Pëtr Il’ič Čajkovskij esita e poi rinuncia… Prima di cambiare idea un anno dopo e trasferirsi a Firenze per comporre l’opera.
Al fratello, scrive che è spesso costretto a fermarsi, cosi sopraffatto dall’emozione che gli viene voglia di piangere. Con sei ore di lavoro al giorno, la termina in soli 44 giorni, convinto di aver realizzato un capolavoro, dichiara che l’ama più di tutto.

Puškin aveva reso il personaggio principale del suo racconto un ufficiale cinico e spietato, che seduce Lisa, la giovane dama di compagnia della vecchia Contessa il cui segreto delle carte che possiede, queste tre cartes che potrebbero renderlo ricco e cambiare la sua condizione, è l’unica ossessione. Čajkovskij ha trasfigurato German in un eroe romantico, soggetto all’attrazione fantastica per il gioco e innamorato della giovane Lisa, diventata nell’opera la nipote della Contessa. Il compositore prova un’attrazione e una tenerezza particolare per il suo eroe, tanto da scrivere al fratello: «Ho composto la fine dell’opera ieri. Quando arrivai alla morte di German provai una tale pena per lui che all’improvviso cominciai a piangere… Era diventato ai miei occhi non solo il motivo per cui scrivevo musica, ma anche una persona vera e propria, per la quale provavo una grandissima simpatia»
Non si può negare a Čajkovskij di aver visto giusto quando gli scriveva che se non si sbagliava terribilmente, la Dama di Picche era veramente il suo capolavoro. La partitura di quest’opera di ossessione, follia, eccesso, distruzione e irresistibile attrazione verso la morte è ricca ed espressiva, costituita da una successione di diversi quadri musicali. Il committente desiderava un’opera alla francese, nello stile di Carmen? Perfetto, è l’opera preferita di Čajkovskij. La marcia militare che apre La Dama di Picche è un omaggio all’aria de “La Garde Montante”. L’aria che German canta alla fine del terzo atto (“Che cos’è la vita? Un gioco! Il bene e il male sono sogni vani”) ci riporta ancora a Carmen. Come lei, egli presagisce fin dall’inizio che la morte lo attende.
Puškin aveva ambientato la storia all’inizio del XIX secolo? I fratelli Čajkovskij invece la traspongono sotto il regno di Caterina II, alla fine del XVIII secolo, il che dà al compositore la possibilità di scrivere nello stile di Mozart che ammira sopra ogni cosa. A volte gli sembra di vivere nel XVIII secolo, e che dopo Mozart non ci sia stato nulla. La costruzione drammatica stessa si interrompe per lasciare spazio a momenti di intermezzo, come in Don Giovanni: un balletto con accenti mozartiani (“La Bergère Fidèle”) curiosamente eliminato da questa produzione pur facendo parte integrante dell’opera e contribuendo alla diversità che ne fa il sapore; una romanza in francese («Je crains de lui parler la nuit» dall’opera di Grétry, Riccardo Cuor di Leone) cantata dalla Contessa mentre ripensa ai giorni della sua giovinezza alla corte del re di Francia. Il mimetismo arriva fino all’apparizione del fantasma della Contessa, la cui morte è stata provocata da German nel tentativo di strapparle il segreto, e che torna a perseguitarlo; infine, completando questo caleidoscopio di influenze varie, il compositore ha inserito melodie ispirate alla musica popolare russa e citazioni di opere conosciute del suo tempo (come l’inno del coro all’arrivo dell’imperatrice “Risuona, tuono della vittoria”).

Veniamo alla messa in scena. Questa produzione del Deutsch Oper di Berlino in cartellone al Teatro Regio di Torino, ha attraversato molte vicissitudini. Inizialmente commissionata al famoso regista inglese Graham Wick, scomparso durante la pandemia di Covid, la produzione è stata ripresa l’anno scorso dal suo assistente, Sam Brown, basandosi su indicazioni sceniche lasciate da Wick. La scenografia e i costumi sono firmati da Stuart Nunn, le coreografie da Angelo Smimmo e le luci da Linus Felbom.
Quale parte dell’artista scomparso si riflette nel risultato finale e quale spetta al suo ex assistente? Difficile da dire, ma il fatto è che lo spettacolo, secondo il nostro parere, è ricco di idee a volte arbitrarie, che rischiano di confondere il senso de La Dama di Picche, come se fosse stato necessario colmare un vuoto o giustificare la firma diversa da quella che aveva avviato il progetto. Volendo emanciparsi troppo, talvolta si rischia di uscire di strada ed è ciò che alla fine accade a questo spettacolo quando tende a discostarsi liberamente dalla musica e dal senso del libretto. German è descritto dal regista come «un uomo qualunque, prigioniero di un’esistenza incolore, sospeso in un limbo sociale da cui non vede via d’uscita. Vive nel dormitorio di una caserma, in uno spazio angusto che riflette la monotonia della sua condizione». La ricchezza gli appare come la porta d’ingresso alla felicità, mentre al contrario Lisa cerca di scappare da questa società di persone benestanti in cui si sente imprigionata. Cercando entrambi di sfuggire al loro destino, il loro incontro, contrario l’uno all’altro, è destinato al fallimento e alla morte. Nell’opera, German si suicida mentre Puškin lo fa finire la sua vita in un manicomio psichiatrico».
Per raccontare questo dramma, Stuart Nunn ha immaginato scenografie che attraversano tre secoli: XVIII, XIX e XX. Una struttura concava di pannelli verticali che ruotano su se stessi delimitano, una volta chiusi, uno spazio interno come una sala da ballo ai tempi di Caterina II; aperti lasciano intravedere un parco, un cielo di San Pietroburgo dove è ambientata l’azione, in diversi momenti, grazie a luci taglienti. In altri momenti, un set moderno e funzionale illuminato da neon delimita una camera i cui muri sono disseminati di foto di Lisa per sottolineare bene l’ossessione amorosa di German (Grazie !). Alla domanda circa l’epoca in cui abbia situato la sua messa in scena, Sam Brown ha risposto che ogni opera lirica si colloca oggi, poiché è il tempo in cui la guardiamo, il resto inerisce scenografie e costumi.

Tra le peculiarità dello spettacolo non direttamente correlate (ma in senso creativo, sì) alla trama o ai pensieri che agitano la mente tormentata di German, la scena del ballo dell’atto II diventa una scena di orgia in una discoteca psichedelica con luci che si riflettono sul globo a specchi al soffitto. Gli ospiti in costumi di epoche diverse copulano nelle varie combinazioni possibili sulla musica (lui con lui, lei con lui, lei con lei) prima di ricevere la visita dell’Imperatrice che ha assunto i tratti e gli abiti della Contessa. Risulta indaginoso ravvisarne il senso.
Il meglio e il più inaspettato deve ancora venire con il tentativo della vecchia Contessa di sedurre il suo aggressore, quando German cerca di strapparle il segreto nell’intimità della sua camera. Sguardi e sfioramenti allettanti, fino alla mimica di una fellatio con la canna della sua pistola in bocca prima di morire … La Contessa diventa un personaggio ricorrente al di là di ciò che è scritto, e il suo fantasma perseguita German per tutto il suo percorso ossessivo, prima per rivelargli le tre carte vincenti (“tre, sette e asso”), poi per accompagnarlo come un angelo custode fino alla scena finale in cui prende tra le braccia, come una pietà, il corpo agonizzante di German. Non siamo lontani qui dal rasentare una caduta nell’equivoco: presso Puškin e Čajkovskij, lei è al contrario la statua del commendatore, che viene a perseguitarlo e a provocarne la rovina.
Alcune scelte sono comunque belle, come le immagini di questo film muto del 1916 della dama di picche, che danno vita al racconto del Conte Tomsky sul segreto della Contessa ottenuto a Parigi quando era giovane, desiderabile e soprannominata “La Venere moscovita”.
Dare unità nell’esecuzione a un’opera così poliedrica, fatta di ispirazioni e stili così diversi, dai mille colori, è un vero tour de force. Un risultato ottenuto con grande talento dal giovane direttore d’orchestra di origine ucraina Valentin Uryupin alla guida dell’Orchestra del Teatro Regio, che ci offre ancora una volta una prestazione notevole, trasmettendo dall’inizio alla fine la tensione della partitura. Sotto la direzione del maestro, che vive questa musica come respiro, le scene intime, rese dal velluto dei legni e degli archi, così come le tempeste della passione scatenate dagli ottoni e dalle percussioni, traducono perfettamente l’ossessione dell’eroe, tra il suo amore iniziale per Lisa e l’attrazione mortale per il gioco che finirà per portare via tutto sulla sua strada. L’attenzione che pone sugli assoli dei legni non sorprende quando si pensa che oltre che direttore d’orchestra Valentin Uryupin è un clarinettista di fama mondiale. Si potrebbe aspettare un po’ più di mistero nelle scene in cui German e Lisa danno libero sfogo ai loro pensieri più oscuri, ma la musica vibra e palpita intensamente, in particolare nelle scene con il Coro diretto da Ulisse Trabacchin e il Coro di voci bianche diretto da Claudio Fenoglio, entrambi magnifici, perfettamente integrati nella messa in scena e a loro agio nella pronuncia della lingua russa.

La distribuzione è omogenea, con interpreti per lo più originari della Russia o di lingua slava, il che garantisce un’eccellente dizione. Nel ruolo travolgente di German, spirito esaltato e cupo, alle prese con la sua ossessione, il tenore russo Mikhail Pirogov offre un’interpretazione convincente, più vocalmente che sul piano scenico dove la sua recitazione manca a volte di sfumature e di vera ampiezza drammatica. Tuttavia, il suo timbro profondo con accenti espressivi sa adattarsi alle situazioni: supplichevole con Lisa per convincerla del suo amore; imperativo di fronte alla Contessa per strapparle il segreto delle tre carte che comandano il suo destino; allucinato di fronte al suo fantasma che torna a perseguitarlo; distaccato e sognante nel momento della morte.
Di fronte a lui, la Lisa di Zarina Abaeva offre una prestazione vocale intensa nell’espressione della passione come della disperazione, con accenti lirici commoventi, soprattutto nei pianissimi, ma la sua presenza drammatica non è indimenticabile. Va detto a sua discolpa che non è favorita dai costumi con cui è vestita. Purtroppo, tra German e Lisa, la scintilla della passione non scocca davvero.
Ma la palma dell’interpretazione spetta senza dubbio al mezzosoprano americano Jennifer Larmore che interpreta una Contessa di prim’ordine. Lontana dall’assomigliare alla vecchia donna di 80 anni del racconto di Puškin, è ancora bella e piena di desideri e lo dimostra inequivocabilmente. Almeno si presta alla volontà del regista che ha così deciso. Il suo canto arioso, così come la sua recitazione magnetica, abbraccia i rimpianti e le divagazioni di una donna che un tempo era il centro dell’attenzione e che non lo è più. La sua aria ripresa da Grétry (“Je crains de lui parler la nuit”) in un francese dalla dizione perfetta, è una meraviglia di sensibilità sognante.
Tra gli altri interpreti, tutti di altissimo livello, il mezzosoprano Deniz Uzon (Polina) firma una bella prestazione nel suo duetto con Lisa, facendo vibrare il suo timbro caldo nella romanza e nella canzone russa che interpreta. Il baritono Elchin Azizov, nel ruolo del conte Tomsky, è eccellente, così come l’altro baritono, Vladimir Stoyanov, che interpreta un principe Eleckij elegante e malinconico nella sua dichiarazione d’amore a Lisa, senza dubbio l’aria più bella di quest’opera.
Segnaliamo ancora la governante di Ksenia Chubunova, molto convincente nel ruolo, e il resto del cast che rende onore alla partitura: Alexey Dolgov (Čekalinsky); Vladimir Sazdovski (Surin); Joseph Dahdah (Čaplickij e Il maestro di cerimonie); Viktor Shevchenko (Narumov); Irina Bogdanova (Maša) e Luca Degrandi (Il Comandante dei bambini), così come la compagnia di balletto.
Alla fine dell’opera, da noi vista la sera dell’anteprima riservata ai giovani di meno di 30 anni, spettacolo che dura comunque 4 ore con 2 intervalli, la sala stracolma ha applaudito a lungo l’allestimento, il cast e l’orchestra. L’opera, decisamente, non è morta.
Recensione di Olivier Horne
Visto al Teatro Regio di Torino il 1 aprile 2025
Foto © Mattia Gaido
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Teatro Regio – Stagione 2024/2025
PIKOVAJA DAMA (LA DAMA DI PICCHE)
Opera in tre atti e sette quadri
Libretto di Modest Il’ič Čajkovskij
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Liza Zarina Abaeva
German Mikhail Pirogov
La Contessa Jennifer Larmore
Il conte Tomskij Elchin Azizov
Il principe Eleckij Vladimir Stoyanov
Polina Deniz Uzun
Čekalinskij Alexey Dolgov
Surin Vladimir Sazdovski
La governante Ksenia Chubunova
Čaplickij Joseph Dahdah
Narumov Victor Shevchenko
Maša Irina Bogdanova
Il piccolo comandante Luca Degrandi
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Regio Torino
Direttore Valentin Uryupin
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Maestro del coro di voci bianche Claudio Fenoglio
Regia Sam Brown
ripresa da Sebastian Häupler
Scene e costumi Stuart Nunn
Coreografia originale Ron Howell
ripresa e adattata da Angelo Smimmo
Luci Linus Fellbom
Direttore dell’allestimento Antonio Stallone
Nuovo allestimento Deutsche Oper Berlin
in coproduzione con Teatro Regio Torino
dal 3 al 16 aprile 2025

FRANÇAIS
«L‘histoire de La Dame de pique ne me stimule pas et je ne pourrais donc qu’en faire une œuvre médiocre.» (Pëtr Il’ič Čajkovskij à son frère Modest Il’ič).
L’histoire des chefs-d’œuvre est pleine de rebondissements. En 1888, quand le directeur des théâtres impériaux de St Petersbourg passe commande d’un opéra tiré de la nouvelle homonyme de Puškin, il s’adresse à un compositeur inconnu. Quand celui-ci se retire, Modest Il’ič Čajkovskij à qui on a confié l’écriture du livret, pense à son frère Pëtr Il’ič qui a déjà adapté deux œuvres du grand poète russe, Eugene Oneguin et Mazeppa. Marqué par l’échec de l’Enchanteresse, son opéra précédent, et surtout absorbé par la composition de sa 5e symphonie, Tchaikovsky hésite puis renonce… avant de changer d’idée un an plus tard et de s’installer à Florence pour composer l’opéra. A son frère il écrit qu’il est parfois obligé de s’arrêter tellement il est submergé par l’émotion et a envie de pleurer. A raison de six heures de travail par jour, il le termine en 44 jours, persuadé d’avoir réussi un chef-d’œuvre, dont il déclare qu’il l’aime plus que tout.
Puškin avait fait du personnage principal de sa nouvelle un officier cynique et sans pitié, qui séduit Lisa, la jeune dame de compagnie de la vieille Comtesse dont le secret des cartes qu’elle détient, ces trois cartes qui pourraient le rendre riche et changer sa condition, est l’unique obsession. Čajkovskij a transfiguré Hermann en héros romantique, soumis à l’attrait fantastique pour le jeu et épris de la jeune Lisa, devenue dans l’opéra la petite-fille de la Comtesse. Il éprouve une attirance et une tendresse particulière pour son héros, au point d’écrire à son frère: «J’ai composé la fin de l’opéra hier. En arrivant à la mort d’Hermann, j’ai été pris d’une telle pitié pour lui que j’ai soudainement commencé à pleurer… Il s’est avéré qu’Hermann était devenu à mes yeux non seulement la raison pour laquelle j’écrivais de la musique, mais aussi une véritable personne, pour qui j’éprouvais une très grande sympathie.»

On ne démentira pas Čajkovskij d’avoir vu juste lorsqu’il lui écrivait qu’à moins de se tromper complètement, la Dame de pique était son chef-d’œuvre.La partition de cette œuvre d’obsession, de folie, d’excès, de destruction et d’attirance inexorable vers la mort est d’une richesse et d’une expressivité foisonnantes, constituée d’une succession de tableaux musicaux différents. Le commanditaire souhaite un opéra à la française, dans le style de Carmen ? Ça tombe à merveille, c’est l’opéra favori de Čajkovskij. La marche militaire qui ouvre La dame de pique est un hommage à l’air de «la garde montante». L’air que chante Hermann à la fin du 3e acte («Qu’est-ce que la vie ? Un jeu ! Le bien et le mal ne sont qu’illusions !») nous ramène encore à Carmen. Comme elle, il pressent dès le début que la mort l’attend.
Puškin avait situé l’histoire au début du XIXe siècle ? Les frères Čajkovskij la transposent sous le règne de Catherine II, à la fin du XVIIIe, ce qui donne au compositeur le loisir d’écrire dans le style de Mozart qu’il admire par-dessus tout. Par moments, il lui semble vivre au siècle de Mozart et qu’après lui, il n’y a rien eu. La construction dramatique elle-même s’interrompt pour laisser place à des moments de divertissement, comme dans Don Giovanni : un balletaux accents mozartiens («la bergère fidèle») curieusement supprimé dans cette production alors qu’elle fait partie intégrante de l’opéra et contribue à la diversité qui en fait la saveur ; une romance en français («Je crains de lui parler la nuit» de l’opéra de Grétry, Richard Cœur de Lion) que chante la Comtesse en repensant aux jours de sa jeunesse à la cour du roi de France. Le mimétisme va jusqu’à l’apparition du fantôme de la Comtesse dont Hermann a provoqué la mort en voulant lui arracher son secret, et qui revient le hanter ; enfin, complétant ce kaléidoscope d’influences variées, le compositeur a inséré des airs inspirés de la musique populaire russe, et des citations d’œuvres connues de son temps (tel l’hymne du chœur à l’arrivée de l’impératrice «Retentis, tonnerre de la victoire»).
Venons-en à la mise en scène, Cette production du Deutsch Oper de Berlin à l’affiche du Teatro Regio de Turin a connu bien des vicissitudes. Initialement commandée au célèbre metteur en scène anglais Graham Wick, disparu pendant la pandémie de Covid, la production a été reprise l’an dernier par son assistant, Sam Brown, à partir d’indications scéniques laissées par Wick. La scénographie et les costumes sont signés Stuart Nunn, les chorégraphie Angelo Smimmo et les lumières Linus Felbom.
Quelle est la part dans le résultat final de l’artiste défunt et celle qui revient à son ancien assistant ? Difficile à dire mais à notre avis, le fait est que le spectacle regorge d’idées dont certaines semblent parfois arbitraires, risquant de brouiller le sens de la Dame de pique, comme s’il avait fallu combler un vide ou justifier la signature différente de celui qui avait lancé le projet. A trop vouloir s’émanciper, on risque parfois la sortie de route et c’est ce qui finit par arriver à ce spectacle lorsqu’il a tendance à dévier librement de la musique et du sens du livret.
Hermann est décrit par le metteur en scène comme « un homme quelconque, prisonnier d’une existence incolore, suspendu dans un vide social qui lui parait sans issue, qui vit dans le dortoir de sa caserne, dans un espace étroit qui reflète la monotonie de sa condition » La richesse lui apparait comme la seule porte d’entrée du bonheur, tandis qu’à l’inverse, Lisa cherche à fuir cette société des gens bien-nés où elle se sent enfermée. En cherchant l’un et l’autre à échapper à leur destin, leur rencontre, à rebours l’un de l’autre, est vouée à l’échec, et à la mort. Dans l’opéra, Hermann se suicide alors que Puškin lui faisait finir ses jours à l’asile psychiatrique.

Pour raconter ce drame, le scénographe a imaginé des décors à cheval sur trois siècles : XVIIIe, XIXe et XXe. Une structure concave de panneaux verticaux qui tournent sur eux-mêmes délimitent une fois fermés, un espace intérieur comme une salle de bal au temps de Catherine II; ouverts ils laissent deviner un parc, un ciel de St Petersbourg où est située l’action, à différents moments, grâce à des lumières tranchées. A d’autres moments, un décor moderne, fonctionnel et éclairé de néons délimite une chambre aux murs constellés de photos de Lisa pour bien souligner l’obsession amoureuse de Hermann.
A la question de savoir dans quelle temporalité il avait situé sa mise en scène, Sam Brown a répondu que tout opéra se déroule aujourd’hui puisque c’est le moment où nous le regardons, le reste étant inhérent aux décors et costumes.
Parmi les particularités du spectacle sans rapport direct avec l’intrigue (mais dans un sens créatif, si) ou les pensées qui agitent l’esprit torturé d’Hermann, la scène du bal de l’acte II devient une scène d’orgie dans une discothèque psychédélique avec des lumières se reflétant sur une boule à facettes au plafond. Les invités en costumes de différentes époques copulent dans les différentes combinaisons possibles sur la musique (lui et lui, elle et lui, elle et elle) avant de recevoir la visite de l’Impératrice qui a pris les traits et les habits de la Comtesse. Il est difficile d’en comprendre le sens.
Le meilleur et le plus inattendu reste à venir avec la tentative de la vieille comtesse de séduire son agresseur, lorsque Hermann cherche à lui arracher son secret dans l’intimité de sa chambre. Œillades et frôlements de séduction, jusqu’au mime d’une fellation avec le canon de son pistolet dans la bouche, juste avant de rendre l’âme… La Comtesse devient un personnage récurrent au-delà de ce qui est écrit, et son fantôme hante Hermann tout au long de son parcours obsessionnel, d’abord pour lui révéler les trois cartes gagnantes (« Trois, Sept et As »), puis pour l’accompagner comme un ange gardien jusqu’à la scène finale où elle prend dans ses bras le corps agonisant d’Hermann, telle une pietà. On n’est pas loin ici de frôler l’incompréhension : chez Puškin et Čajkovskij, elle est au contraire la statue du commandeur, qui vient le hanter et provoquer sa perte !
Certains choix en revanche enrichissent la mise en scène, comme les images de ce film muet de 1916 adapté de la Dame de pique, qui donnent vie au récit du comte Tomsky sur la manière dont la Comtesse a obtenu le secret des trois cartes à Paris alors qu’elle était jeune, désirable et surnommée « La Vénus moscovite ».
Donner une unité dans l’exécution à une œuvre aussi protéiforme, faite d’inspirations et de styles si différents, aux mille et une couleurs, relève du tour de force. Que réussit avec grand talent le jeune chef d’origine ukrainienne Valentin Uryupin à la tête de l’orchestre du Teatro Regio, qui nous offre une fois de plus une prestation remarquable, rendant de bout en bout la tension de la partition. Sous la direction du maestro, qui vit cette musique comme il respire, les scènes intimes, rendues par le velouté des bois et des cordes, comme les orages de la passion déchaînés par les cuivres et les percussions, traduisent à merveille l’obsession du héros, entre son amour initial pour Lisa et l’attirance mortifère pour le jeu qui finira par tout emporter sur son passage. L’attention qu’il porte au pupitre des Bois n’a rien d’étonnant si l’on songe que Valentin Uryupin est d’abord un clarinettiste de renomée mondiale. On pourrait s’attendre à un peu plus de mystère dans les scènes où Hermann et Lisa donnent libre cours à leurs pensées les plus noires, mais dans l’ensemble la musique vibre et palpite intensément, en particulier dans les scènes avec le chœur dirigé par Ulisse Trabacchin, et le Chœur d’Enfants dirigé par Claudio Fenoglio, l’un et l’autre magnifiques, parfaitement intégrés à la mise en scène et à l’aise dans la prononciation de la langue russe.
La distribution est homogène, avec des interprètes pour la plupart originaires de Russie du moins de langue slave, ce qui garantit une excellente diction. Dans le rôle très exigeant de Hermann, esprit exalté et sombre, aux prises avec sa quête obsessionnelle, le ténor russe Mikhaïl Pirogov offre une interprétation convaincante, plus vocalement que sur le plan scénique où son jeu manque parfois de nuances et de véritable ampleur dramatique. Mais son timbre profond aux accents expressifs sait s’adapter aux situations : suppliant avec Lisa pour la convaincre de son amour ; impératif face à la Comtesse pour lui soutirer le secret des trois cartes qui commandent son destin ; halluciné devant son fantôme qui revient le hanter ; détaché et rêveur au moment de mourir.
Face à lui, la Lisa de Zarina Abaeva livreune prestation vocale intense dans l’expression de la passion comme du désespoir, avec des accents lyriques émouvants, surtout dans les pianissimi, mais sa présence dramatique n’a rien d’inoubliable. Il faut dire à sa décharge qu’elle n’est pas avantagée par les costumes dont elle est affublée. Entre Hermann et Lisa, l’étincelle de la passion ne prend pas.

Mais la palme de l’interprétation revient sans conteste à la mezzo-soprano américaine Jennifer Larmore qui campe une Comtesse de premier ordre. Loin de ressembler à la vieille femme revêche de 80 ans de la nouvelle de Puškin, elle est encore belle et pleine de désirs, et elle le montre sans équivoque. Du moins se prête-t-elle à la volonté du metteur en scène qui en a décidé ainsi. Son chant aérien, tout comme son jeu de scène magnétique, épouse les regrets et les divagations d’une femme qui a été autrefois le centre de l’attention et qui ne l’est plus. Son air repris de l’opéra de Grétry « Je crains de lui parler la nuit » dans un français à la diction parfaite, est une merveille de sensibilité rêveuse.
Parmi les autres interprètes, tous de très bon niveau, la mezzo-soprano Deniz Uzon (Polina)signe une belle prestation dans son duo avec Lisa, faisant vibrer son timbre chaud dans la romance et la chanson russes qu’elle interprète. Le baryton Elchin Azizov, dans le rôle du comte Tomsky, est excellent, tout comme l’autre baryton, Vladimir Stoyanov, qui campe un prince Eleckij élégant et mélancolique dans sa déclaration d’amour à Lisa, sans doute l’air le plus beau de cet opéra. Signalons la gouvernante de Ksenia Chubunova, très convaincante dans le rôle, et le reste de la distribution qui fait honneur à la partition : Alexey Dolgov (Čekalinsky), Vladimir Sazdovski (Surin), Joseph Dahdah (Čaplickij), Viktor Shevchenko (Narumov), Irina Bogdanova (Maša) et Luca Degrandi (Le Commandeur des enfants).
À la fin de la représentation, que nous avons vue le soir de la générale réservée aux jeunes de moins de 30 ans, d’un opéra qui dure quand même 4 heures (dont 2 entractes), la salle archi-comble a réservé de très longs applaudissements aux chanteurs, au choeur, aux danseurs et à l’orchestre. L’opéra décidément, n’est pas mort.
Compte-rendu de Olivier Horne
Teatro Regio di Torino, 1 Avril 2025
Ph © Mattia Gaido
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Teatro Regio – Stagione 2024/2025
PIKOVAJA DAMA (LA DAME DE PIQUE)
Opera en trois actes et sept tableaux
Livret de Modest Il’ič Čajkovskij
Musique de Pëtr Il’ič Čajkovskij
Liza Zarina Abaeva
Hermann Mikhail Pirogov
La Comtesse Jennifer Larmore
Le Comte Tomskij Elchin Azizov
Le Prince Eleckij Vladimir Stoyanov
Polina Deniz Uzun
Čekalinskij Alexey Dolgov
Surin Vladimir Sazdovski
La gouvernante Ksenia Chubunova
Čaplickij Joseph Dahdah
Narumov Victor Shevchenko
Maša Irina Bogdanova
Le petit commandant Luca Degrandi
Orchestre, Chœur et Chœur d’enfants du Teatro Regio Torino
Chef d’orchestre Valentin Uryupin
Directeur du Chœur Ulisse Trabacchin
Directeur du Chœur d’enfants Claudio Fenoglio
Mise en scène Sam Brown
Reprise Sebastian Häupler
Décors et costumes Stuart Nunn
Chorégraphie originale Ron Howell
Reprise et adaptation Angelo Smimmo
Lumières Linus Fellbom
Directeur de scène Antonio Stallone
Nouvelle production Deutsche Oper Berlin
En coproduction avec le Teatro Regio Torino
Du 3 au 16 aprile 2025