Un palazzo immaginario, arabescato a ricci e volute, leggere e trasparenti come una mantiglia di pizzo nero. Le scene di Poppi Ranchetti hanno costituito una naturale prosecuzione del disegno registico de Il barbiere di Siviglia che il compianto Beppe De Tomasi (con il quale chi scrive ha avuto la fortuna in un passato remoto di lavorare in palcoscenico) confezionò nel 2005 e che ora è stato ripreso da Renato Bonajuto per la Stagione lirica al Teatro Regio di Parma. Una regia di aerea levità, in cui non sono mancate le gag e le controscene spiritose, ad esempio il lenzuolo riportante un rigo musicale srotolato come promemoria davanti ai suonatori della serenata, benché mai sia stato accentuato il lato farsesco, espresso con lodevole misura.

De Tomasi non ha cercato la risata facile e ha invece privilegiato l’eleganza del sorriso, demandando il buffo all’interazione tra musica e libretto, all’improbabile meccanismo che muove la vicenda stessa, alle strampalate idee che al suono di metallo monetario inventa Figaro; al bislacco arrabattarsi dell’uomo nel tentativo di imprimere il desiato corso alle faccende della vita. Uomo non sinonimo di umanità ma nell’accezione di singolare maschile, perché a detenere incontrastata la palma della furbizia, si sa, è Rosina. Quindi una regia che non ha forzato la mano e si è imperniata sul profondo rispetto per il teatro del suo ideatore, sulla sua conoscenza del “mestiere”, avvalendosi degli sgargianti costumi di Artemio Cabassi e delle luci di Andrea Borelli che hanno immerso in atmosfere favolistiche sotto cieli sfumati dal rosa al blu.

In meno di due settimane Gioachino Rossini scrisse questo capolavoro immortale, tra i più amati di sempre. Nei due week-end di repliche – seguendo una pratica diffusa, legittimata e in molti titoli di prammatica – ha operato tagli alla partitura Alessandro D’Agostini, sul podio dell’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna “Arturo Toscanini”. Una direzione anch’essa improntata alla misura, al gusto soft nell’affrontare l’inventiva comica musicale del genio di Pesaro.

Ovazioni fin dall’esordio per Julian Kim che ha calibrato con stile la gaudente spavalderia di Figaro, cui ha dato timbro gradevole, proiezione e ben dosata potenza, ottima dizione e padronanza di fraseggio. Attento alla precisione esecutiva Francisco Brito, voce chiaraben calzata all’innamorato Conte d’AlmavivaLindoro. Nelle vesti della scaltra e compita Rosina era Carol Garcia, dalla linea di canto omogenea e aggraziata, ha superato facilmente le pagine di agilità.

Abilmente destreggiatosi nel sillabato veloce Vincenzo Taormina, Don Bartolo spiritoso senza gigionerie, intelligente nell’anteporre l’espressività vocale a quella scenica, pur egregiamente realizzata. Spigliato nella Calunnia, Guido Loconsolo ha ringiovanito il personaggio di Don Basilio. Sprizzava gradevole freschezza l’arzilla Berta di Eleonora Bellocci. Hanno completato il cast con la dovuta verve Lorenzo Barbieri, Fiorello, e Giovanni Bellavia, Ufficiale. Ben inquadrato vocalmente e scenicamente il Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani.

Recensione di Maria Luisa Abate

Visto al Teatro Regio di Parma il 30 marzo 2019
Contributi fotografici Roberto Ricci