Un Andrea Chénier corredato da tutto ciò che ci si aspetta: nobili imparruccati e sventolio di bandiere rivoluzionarie, vita di corte e clima di Terrore. Il capolavoro di Umberto Giordano era assente dal teatro Regio di Parma da vent’anni e vi è giunto nell’ambito di una circuitazione in Emilia Romagna, essendo questo un nuovo allestimento delle Fondazioni dei Teatri di Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Ravenna, coprodotto con l’Opéra de Toulon. Il regista Nicola Berloffa ha soddisfatto la descrittività seguendo l’esempio di Luigi Illica, che confezionando il libretto dell’opera non ha lesinato prolisse didascalie. Berloffa ha parlato di «dramma che si misura con la storia senza esserne sopraffatto», per quanto invece nella sua impostazione la Rivoluzione francese sia stata la protagonista super omnia, esaltata nei costumi di Edoardo Russo e nelle scenografie di Justin Arienti.

Il quale ha immaginato una struttura angolare, inizialmente scomposta su due piani. In quello sottostante, il popolo ingrigito faceva la fame, mentre sopra, la nobiltà si divertiva diventando tutt’uno con il grande quadro appeso alla parete. Un immobilismo storico evidenziato nei tanti tableau vivant, resi plastici dalle luci di Valerio Tiberi. Sui blasonati incombeva un destino già scritto. La servitù, disposta su una struttura a gradini, osservava i padroni parendo la giuria di un tribunale. Un’anticipazione foriera dell’ineluttabile precipitare degli eventi. Come dire: i segnali c’erano e sono stati ignorati. Un drappo di tappezzeria cadendo ha trasformato la parete in un ponteggio usato per dipingere un murale di libertà: la Rivoluzione ha fatto irruzione nella stanza. La ghigliottina, mai utilizzata, ha costituito un’inquietante minaccia ma anche è stata utilizzata come una cornice, come uno stipite di porta dai personaggi per nulla intimoriti dal sostarvi sotto. La ghigliottina quindi è assurta a simbolo di Terrore e al contempo di battagliera speranza di un popolo che si stava affacciando al proprio futuro.

Giovanni Di Stefano, sul podio della valente Orchestra dell’Emilia Romagna, si è prodigato nel rafforzare, con le dinamiche, la solidità della struttura compositiva di Umberto Giordano, sottolineando gli accenti drammatici senza trascurare le pagine di introspezione. Nel ruolo del titolo era il tedesco-brasiliano Martin Muehle, dall’acuto generoso emesso con naturalezza e saggezza, mai esibito inutilmente. Dopo “Un di all’azzurro spazio guardai profondo…” eseguito con il distacco richiesto dall’indole scontrosa del personaggio, ha raggiunto l’apice nell’ultimo atto, in “Si fui soldato” finemente tornito. Chénier è motivato dall’amor di patria, prima che dal sentimento passionale, è innamorato della poesia prima ancora che della sua donna, in una sorta di lirismo che si libra al di sopra della materialità. Eccellente Claudio Sgura che ha confermato la propria fama. Bel fraseggio, bei colori, voce sontuosa e timbrata in una linea stilistica di efficace espressività drammatica, emersa specialmente in “Nemico della patria?” e nei momenti di tomento interiore, di scelta tra le ragioni politiche e l’onestà intellettuale di Carlo Gérard.

Teresa Romano era Maddalena di Coigny, pastosa e con bei legati, morbidezze sfociate in acuti sicuri e di potenza adeguatamente gestita, ha raggiunto il culmine espressivo in “La mamma morta”. Volitiva La mulatta Bersi di Nozomi Kato, vocalità omogenea di grande interesse. Menzioni speciali all’anziana Madelon della quale vestiva i panni Antonella Colaianni in un’interpretazione commovente, e a Stefano Marchisio che ha svolto nulla meno che ottimamente la parte di Roucher. Hanno padroneggiato la scena e caratterizzato i rispettivi ruoli Shay Bloch, Contessa di Coigny; Alex Martini, Pietro Fléville/Fouquier Tinville; Fellipe Oliveira, Il sanculotto Mathieu; Alfonso Zambuto, “Incredibile”; Roberto Carli, Abate. Hanno completato il cast Stefano Cescatti, Schmidt; Luca Marcheselli, Maestro di Casa/Dumas. Degno di note positive il Coro Lirico Terre Verdiane-Fondazione Teatro Comunale di Modena preparato da Stefano Colò.

Recensione di Maria Luisa Abate

Contributi fotografici Roberto Ricci
Visto al Teatro Regio di Parma il 5 aprile 2019.