Di Maria Luisa Abate. Parma, Festival Verdi: debuttata in prima assoluta la Suite sull’opera ‘Timon of Athens’, che sarà alla Scala nel 2027.

Protagonista one more time, l’immortalità di Shakespeare derivante dalla sua straordinaria capacità di parlare a pubblici di tutte le epoche, e, come non bastasse, tramite mezzi divulgativi differenti, dalla letteratura al teatro alla musica. Il Bardo vissuto nel 500, quando non c’erano automobili e aerei e ci si spostava a piedi o a cavallo, quando non era stata scoperta l’elettricità e si viveva a lume di candela, forse mai avrebbe immaginato di poter ispirare gli uomini del Duemila, che sono andati nello spazio e vivono perennemente connessi al resto del pianeta, avvalendosi dell’intelligenza artificiale che rende obsoleti i normali computer (questa nostra recensione è scritta di pugno, senza pseudo intelligenze aliene, lo giuriamo). Eppure William Shakespeare è senza tempo. Ed è sbalorditivo, e agghiacciante, constatare come si perpetuino immutati taluni comportamenti umani, in genere i più spregevoli.

Stessa immortalità è attribuibile a Giuseppe Verdi, la cui eredità si proietta alle generazioni successive di musicisti, ogni volta rinnovandosi e riscrivendo proprie “leggi”. A traghettare il nativo di Stratford nel presente, ricalcando e spingendo in avanti le orme del Bussetano, ha ora pensato Luca Francesconi, classe 1956, allievo di Berio e di Stockhausen, prolifico e pluripremiato compositore già direttore alla Biennale di Venezia, se mai ci fosse bisogno di ricordarlo.

A Parma, dinanzi al pubblico dell’Auditorium Niccolò Paganini, edificio progettato dall’architetto Renzo Piano che spunta tra gli alberi del Parco della Musica, e rivolgendosi anche agli ascoltatori sintonizzati su Radio 3 Rai, ha debuttato in prima assoluta la nuova commissione del 25° Festival Verdi Timon Études. La suite per soli, coro e orchestra tratta dal dramma shakespeariano Timon of Athens, e della quale Luca Francesconi è autore sia della musica che del libretto, ha inaugurato la sezione Ramificazioni del Festival Verdi, nell’ambito del Progetto Arcipelaghi 2025 di Reggio Parma Festival. Uno Studio (ma études significa anche prosecuzione), una ricerca, un’anticipazione sull’ “opera in due illusioni” dello stesso compositore (commissionato nel 2020 dalla Bayerische Staatsoper e non inscenato causa pandemia di Covid), programmata alla Scala nel 2027.

Si tratta della più controversa e non ancora del tutto chiarita tragedia shakespeariana, ispirata al misantropo ateniese Timone, il quale dissipa le sue ricchezze per donarle agli altri riducendosi in miseria (detto per inciso, anche Dante 250 anni prima puniva i prodighi al pari degli avari collocandoli negli stessi gironi d’Inferno e Purgatorio). Isolatosi in un luogo lontano dalla civiltà, scavando trova dell’oro che reinveste per dimostrare quanto sia insanabile l’avidità umana e quanto l’uomo sia corruttibile. Verso i suoi simili Timone ha maturato un odio senza possibilità di redenzione. Esattamente questo rancore, questo disprezzo cieco e totalizzante, abbiamo ritrovato nella composizione di Francesconi.

In Timon Études si è ravvisata una tensione drammaturgica avente la forza di un’opera indipendente che può essere eseguita e compresa anche in maniera a se stante, tanto è risultata completa. La creatività di Francesconi non conosce confini: aveva spiegato durante un’intervista pubblicata dal Miller Theatre (Columbia University School of the Arts) che «la cosa più rivoluzionaria che possiamo fare oggi è collegare il corpo e il cervello». Ed egli stesso ha più volte rimarcato quanto il suo stile compositivo attinga all’intera storia della musica «dal silenzio al rumore».

Confermando tale assunto, in Timon Études le note hanno avuto la stessa valenza – e anche, si badi bene, la medesima forma – delle parole e delle pause; i silenzi lo stesso significato dei pieni orchestrali; le voci lo stesso utilizzo pratico degli strumenti, il tutto con capacità evocativa. Francesconi infatti, sia in veste di compositore che di librettista, ha con questo lavoro proseguito la sua incessante ricerca della consistenza fisica del suono, di una materialità uditiva che ha piegato alla metamorfosi utilizzando la natura cangiante dei colori e principalmente basandosi su diverse scansioni ritmiche. Proteso all’analisi dell’irrazionale nella mente umana, Francesconi ha scelto toni duri, graffianti, acidi e asprigni, di invettiva contro la bramosia dell’oro e soprattutto del male che esso può generare, soffermandosi sulle terrene bassezze, sulle pulsioni e le passioni, sui molti momenti d’ira e sui rari e illusori sprazzi di conciliazione. E ha sviluppato questi sentimenti nei diversi stadi attraversati dai personaggi: dalla ferocia alla disillusione, dal cinismo al nichilismo fino all’odio provato da Timon verso la razza umana, talmente radicato da risultare irrisolvibile.

Michele Gamba ha diretto l’Orchestra Sinfonica di Milano, integrata soprattutto nella sezione percussiva. Da lui guidati, gli interpreti hanno assecondato i contrasti uditivi autorali e dato spessore psicologico ai personaggi, dribblando tra sentimenti altalenanti, in contrasto o sovrapponibili.  

Splendidamente passato da canto a recitazione nel processo di autoannientamento intrapreso da Timon, Robin Adams ha raggiunto il culmine espressivo nel conclusivo attacco alla razza umana incapace di sentimenti puri e sinceri come l’amore, avvezza solo all’interesse e al livore, avendo egli quasi ripudiato la sua stessa natura che lo inorridisce.

Accanto a lui le straordinarie voci soliste di Julian Hubbard (Alcibiades) Thomas Oliemans (Apemàntus) e il complesso dei Neue Vocalsolisten formato da Johanna Vargas (Pittore), Andreas Fischer (Poeta), Susanne Leitz-Lorey (Bandito 1), Daniel Gloger (Bandito 2, Timandra), Helena Sorokina (Senatore 1), Guillermo Anzorena (Senatore 2), Martin Nagy (Flavius).

Come si accennava, si è azzerata la distinzione tra voce e suono, passando da improvvisi silenzi che sarebbe più corretto definire vuoti, a repentine incrinature che si sono propagate come crepe su una parete rocciosa; dai sussurri alle grida e alla rumoristica; dai canti a voce piena ai falsetti; sempre destabilizzando la forma del suono, sovvertendo la sua materialità e stupendo l’ascoltatore.

I solisti quindi, parimenti al Coro del Teatro Regio di Parma la cui certosina preparazione era merito di Martino Faggiani, si sono ritrovati impegnati non solo nell’affrontare una partitura oggettivamente impervia (è bastato osservare quanto i loro occhi fossero incollati a direttore e leggii) ma, pur nell’asciutta forma di concerto, si sono prodigati in una espressività anche attoriale risultata esaustiva, favorita dai sopratitoli bilingui.

Una musica ringhiosa, feroce, tagliente come lama e urticante come carta vetrata eppure incredibilmente gradevole all’orecchio della platea e di immediato accesso alla mente: il collegamento corpo-cervello di cui si diceva poc’anzi. Una musica che il direttore Michele Gamba ha condotto con gesto estremamente preciso, minuziosamente attento ora alle sezioni orchestrali, ora agli interventi dei singoli strumenti intendendo con ciò anche i cantanti, con esiti spesso superlativi stante l’impossibilità di distinguere voce umana e strumentale. L’insieme è pertanto risultato esattamente ciò che doveva essere: un vero insieme!

Al termine, applausi scroscianti rivolti a tutti e un boato-ovazione al comparire sul palco del compositore che ha distribuito agli interpreti una rosa presa dal suo mazzo, accompagnando il gesto gentile con un sorriso radioso di evidente soddisfazione.

Recensione di Maria Luisa Abate
Parma, Festival Verdi, Auditorium Niccolò Paganini, 28 settembre 2025
Foto credits Roberto Ricci

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