Di Vincent Cipriani. Wiener Staatsoper: visione divertita del regista Herbert Fritsch, che si discosta ma non tradisce le intenzioni dell’opera di Beckett – Kurtág.
L’opera teatrale Fin de partie di Beckett, creata nel 1957, è nota per presentare una visione apocalittica di un mondo che sta morendo, mettendo in scena un vuoto che non può essere riempito, dove non c’è nulla da sentire, nulla da vedere; dove, se c’è un senso, è verso una riduzione infinita al minimo. Può sembrare difficile mettere in musica un testo così arido; la cosa appare addirittura paradossale, se non impossibile. Eppure è proprio questa l’impresa compiuta da György Kurtág. Frutto di una commissione del Teatro alla Scala di Milano, questa è l’unica opera lirica composta dal maestro ungherese.
Dopo la creazione dell’opera nel novembre 2018 alla Scala (Kurtág aveva allora 92 anni), in una messa in scena inaugurale di Pierre Audi, la produzione diretta da Herbert Fritsch, presentata alla Staatsoper di Vienna, è la seconda realizzazione di questo titolo. Fin de partie è quindi un’opera molto giovane, che sta muovendo i primi passi nei teatri lirici europei; eppure, la messa in scena di Herbert Fritsch è già molto diversa da quella di Pierre Audi, tanto da rappresentare quasi un divario estetico. Audi aveva scelto una lettura apocalittica: le scenografie e i costumi erano interamente in bianco e nero, i personaggi erano vecchi e infermi, in un’atmosfera generale mortifera.

Da Fritsch invece (che cura personalmente la regia, le scenografie e i costumi), sebbene il testo e le situazioni siano gli stessi – lunghi monologhi assurdi, comunicazione impossibile tra i personaggi, Nagg e Nell nei loro bidoni della spazzatura e Hamm seduto sulla sua sedia a rotelle – l’atmosfera generale è, paradossalmente, piuttosto allegra: infatti, sul palcoscenico sono visibili colori molto vivaci e meno cupi, e il regista ha introdotto gag e battute umoristiche, prendendosi anche alcune libertà rispetto alle indicazioni sceniche estremamente precise di Beckett, che Kurtág ha riportato alla lettera nella sua partitura. Tali licenze, pur allontanandosi dalla visione originale di Beckett, non ne tradiscono tuttavia l’intenzione: questa presa di distanza è invece molto interessante, perché mette in luce nuovi aspetti dell’opera, che fino ad allora erano rimasti inesplorati.
L’opera inizia con un breve prologo, che Kurtág ha deciso di aggiungere al dramma di Beckett: si tratta di una poesia dello stesso autore, Roundelay, cantata in inglese dalla stessa interprete del ruolo di Nell. Fin dai primi secondi di questo prologo, viene annunciato il tono “ludico”: qualcuno agita il sipario colpendolo da dietro, poi appare un personaggio che salta davanti allo stesso, vestito di nero con una bombetta; ricorda il protagonista di un one man show, con il suo atteggiamento entusiasta e molto aperto, un grande sorriso sulle labbra, un alone di luce sopra di lui; apre le braccia, gesticola, abbozza alcuni passi di danza molto teatrali, saluta la direttrice d’orchestra, fa «ciao» a qualcuno tra il pubblico, poi inizia a cantare Roundelay. Va detto che l’atteggiamento di questo personaggio è molto sorprendente: perché sembra così felice di essere lì? È piuttosto insolito per un’opera nota per essere deprimente e apocalittica, ma proclama fin dall’inizio forte e chiaro la scelta di allegria divertita fatta dal regista.

Una volta terminato il prologo, questa stravagante figura scompare e il sipario si apre. Si scopre un interno, una grande scatola completamente bianca, con pareti asimmetriche, tutte inclinate, senza alcun bordo della stessa lunghezza, che formano una prospettiva strana e deformata. Sul un lato, in basso a sinistra della parete, un’apertura che funge da porta, con l’architrave sghembo, dà accesso alla cucina di Clov; sul lato opposto, in alto a destra, una finestra formata da quattro parallelogrammi anch’essi deformati e di dimensioni diverse. C’è un solo affaccio, ma lungo la stanza sono visibili su tutte le pareti diverse proiezioni di luce bianca della stessa forma della finestra, come se il sole attraversasse diverse intelaiature, anche se ne vediamo solo una. Queste proiezioni appaiono e scompaiono man mano, si espandono, formando grandi macchie, poi svaniscono gradualmente, a volte fino a quattro o cinque simulacri luminosi di dimensioni diverse contemporaneamente, che si sovrappongono parzialmente e ricoprono tutte le pareti. In primo piano ritroviamo naturalmente i due bidoni della spazzatura canonici, anch’essi completamente bianchi, così come Hamm sulla sua sedia a rotelle, coperto all’inizio dell’opera, come voleva Beckett, da un lenzuolo bianco.
Il regista ha chiaramente voluto trattare i suoi personaggi come giocattoli un po’ malfunzionanti. Clov indossa una parrucca giallo brillante, simile alla pettinatura «kitsch» di una bambola. Durante la sua pantomima iniziale, porta una scala dello stesso color limone dei suoi capelli; alla fine dell’opera, quando torna con la sua valigia e minaccia di andarsene, indossa stivali e impermeabile gialli. Questa passione di Clov per gli accessori paglierini lo fa sembrare stranamente un giocattolo, come un modello di bambola “gialla” che dispone di diversi accessori monocromi che un bambino si divertirebbe a fargli indossare.
Mentre gli altri tre personaggi sono perfettamente immobili, Hamm sulla sua sedia a rotelle, Nagg e Nell nei loro bidoni della spazzatura, Clov è l’unico ad apportare mobilità: non appena entra in scena, percorre tutto lo spazio in lungo e in largo, come un pupazzo elettrico che non riesce a stare fermo. Contrariamente alle indicazioni di Beckett e alle precedenti messe in scena, Clov non zoppica: le sue gambe, al contrario, mostrano una notevole agilità, con lunghe falcate che a volte sembrano passi di danza. Tuttavia, la sua andatura presenta comunque una sorta di impedimento, per lo strano modo in cui agita le braccia, torce la parte superiore del corpo, quasi sul punto di cadere da un momento all’altro; il suo procedere è instabile, come se il suo torace fosse costituito da una molla che lo costringe a un perpetuo squilibrio: il regista ha quindi spostato la disabilità di Clov dalla parte inferiore alla parte superiore del corpo.
Anche Hamm è piuttosto diverso da come ci si aspetterebbe leggendo le didascalie di Beckett. Anche lui è piuttosto colorato, con uno scialle variopinto sulle ginocchia e una sedia a rotelle di un blu scuro molto acceso. Seduto sulla carrozzella per tutta la durata dello spettacolo, è paralizzato dalla vita in giù; la parte superiore del corpo, invece, è molto vivace: Herbert Fritsch gli fa agitare le braccia in tutte le direzioni, annuire energicamente con la testa, torcere il busto con grande vivacità… Tanto che, guardandolo, non si ha quasi l’impressione che sia paralizzato.
Quanto a Nell e Nagg, essi appaiono uscendo dai loro bidoni della spazzatura con la pelle interamente dipinta di giallo, di un colore simile a quello di Clov, che li fa sembrare una specie di puffi gialli. Le loro acconciature sono particolarmente ridicole: Nagg ha una chioma bianca arruffata come una nuvola di fumo intorno a sé, mentre Nell indossa una parrucca dai riflessi rosati che ricorda i capelli sintetici di una bambola di scarsa qualità.
Tutti i personaggi sono quindi giocattoli, come burattini malfunzionanti, ad eccezione della presenza iniziale del prologo, che è l’unico vestito di nero e appare come un vero essere umano e non come un fantoccio. Se volessimo cercare di interpretarne l’identità potremmo arrivare a suggerire che incarni la figura metateatrale di un impresario, o di un burattinaio, che presenta il suo spettacolo di marionette al pubblico.

Herbert Fritsch riesce nell’impresa di inserire dell’umorismo in questo spettacolo difficilmente allegro. Già i costumi, e in particolare le parrucche dei personaggi, fanno ridere per la loro eccessiva ridicolaggine; c’è del comico gestuale, ad esempio nel fatto che ogni volta che Clov vuole andare in cucina, sbatte contro il muro; nel momento del suo penultimo monologo, Hamm fa una lunga pausa, così lunga che dopo un po’ i musicisti dell’orchestra si alzano per guardarlo e esortarlo a iniziare; la direttrice d’orchestra gli fa cenno: «Vai, inizia», e lui risponde a sua volta con un cenno: «No, andate voi»; e questo per quattro o cinque volte, tra le risate del pubblico, prima che Hamm si decida finalmente a iniziare il suo monologo. Il regista si è quindi divertito con i suoi personaggi, giocando con loro, in eco alla prima battuta di Hamm: « À moi de jouer.».
L’opera si svolge in una successione di monologhi che mostrano l’impossibilità di comunicazione tra questi quattro giocattoli; i discorsi sono sconnessi, le storie che raccontano sono incomplete, i dialoghi sono lapidari. Nessuna grande aria virtuosistica: anche la musica è sconnessa, dando un’impressione di incompiutezza; l’orchestra, che comprende strumenti piuttosto insoliti come la celesta o la fisarmonica, è raramente sollecitata nel suo insieme: gli strumenti suonano per lo più in piccoli gruppi, dando l’impressione di musica da camera. Paradossalmente, la musica non colma il vuoto esistenziale che divora i personaggi, ma ne diventa la cassa di risonanza.
È interessante notare come nella messa in scena di Fritsch i confini tra spazio interno ed esterno siano sfumati. Secondo le indicazioni di Beckett, l’opera si svolge in un interno opprimente. Tuttavia, le proiezioni di luce a forma di finestre, di cui si è parlato sopra, sembrano suggerire un tentativo di penetrazione aggressiva della luce esterna all’interno – e in modo tanto più marcato in quanto ci sono quattro o cinque proiezioni diverse, come se ci fossero più finestre, rendendo questo ambiente più aperto verso l’esterno di quanto sembri a prima vista. D’altra parte, man mano che l’opera procede, il soffitto si stacca dalle pareti della stanza; le pareti e il soffitto iniziano gradualmente a oscillare, rivelando il vuoto nero e angosciante che circonda tale scatola bianca. Questo dondolare dei muri provoca una sorta di mal di mare, come se l’appartamento fosse una barca agitata dal mare (il che è coerente con il fatto che Nell, nel suo dialogo con Nagg, dice che vivono vicino a una spiaggia); d’altra parte, questo dimostra che le pareti non forniscono alcuna protezione rispetto allo spazio esterno. Infine, durante tutta l’opera, Clov entra ed esce dall’unica porta situata a destra; ma alla fine, con la valigia in mano, arriva improvvisamente dal lato sinistro (dove non c’è nessuna porta), il che ha l’effetto di smaterializzare e rendere vano ogni riferimento spaziale.
Sebbene la trama sia lunga, sconnessa e difficile da seguire, l’eccellenza vocale e musicale fa sì che si rimanga costantemente affascinati dalla rappresentazione e che i personaggi catturino la nostra attenzione per tutta la durata dello spettacolo. Clov, impersonato da Georg Nigl, ha un timbro molto colorato e raffinato; le sue intonazioni sono a volte buffe, sottolineando il carattere comico del suo personaggio. Philippe Sly, che interpreta il ruolo di Hamm, è un basso straordinario, con una voce densa e calda, rotonda e morbida, dal timbro fermo e costante. Charles Workman conferisce a Nagg una voce molto chiara, leggermente nasale, estremamente agile ed espressiva. Infine, Hilary Summers, che aveva già rivestito il ruolo di Nell durante il debutto dell’opera alla Scala nel 2018 e poi durante la tournée inaugurale, conferisce al suo personaggio un carattere affascinante, con una voce sontuosa, ricca, densa e precisa. La direzione dell’Orchestra della Wiener Staatsoper da parte di Simone Young è energica e dinamica, ma allo stesso tempo molto rigorosa, sottolineando il carattere enigmatico e allusivo della partitura di Kurtág.
La Fin de partie che va in scena alla Staatsoper di Vienna fino al 10 ottobre è quindi una produzione di grande successo, che presenta una visione inabituale dell’opera rispettando al contempo le intenzioni originali dei suoi autori. Non si tratta certamente di un’opera facile, ma la forte impressione che lascia allo spettatore permette di ritenere legittimamente che si tratti di una delle creazioni liriche contemporanee di maggior successo.
Recensione di Vincent Cipriani
Visto alla Staatsoper di Vienna il 3 ottobre 2025
Immagine di copertina: Foto (c) Wiener Staatsoper-Michael Poehn
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FRANÇAIS

La pièce Fin de partie de Beckett, créée en 1957, est connue pour présenter une vision apocalyptique du monde en train de s’éteindre, mettant en scène un vide ne pouvant être rempli, où il n’y a rien à entendre, rien à voir ; où, s’il y a un sens, c’est vers une réduction interminable au moindre. Il peut sembler difficile de mettre en musique un texte aussi aride ; la chose paraît même paradoxale, voire impossible. Et pourtant, c’est bien la prouesse qu’a accompli György Kurtág. Fruit d’une commande de la Scala de Milan, cet opéra est l’unique œuvre lyrique du compositeur hongrois.
Après la création de l’opéra en novembre 2018 à la Scala (Kurtág a alors 92 ans), dans une mise en scène inaugurale de Pierre Audi, la production mise en scène par Herbert Fritsch, présentée au Staatsoper de Vienne, est la deuxième réalisée de cette œuvre. Fin de partie estdonc un opéra tout jeune, qui fait ses premiers pas dans les maisons d’opéras européennes ; et pourtant, la mise en scène d’Herbert Fritsch est déjà très différente de celle de Pierre Audi – c’est même presque un grand écart esthétique. Audi avait fait le choix d’une lecture apocalyptique de la pièce : le décor et les costumes étaient entièrement en noir et blanc, les personnages étaient vieux et infirmes, dans une ambiance générale mortifère.
Chez Fritsch en revanche (qui réalise lui-même la mise en scène, le décor et les costumes), bien que le texte et les situations soient les mêmes – de longs monologues absurdes, une communication impossible entre les personnages, Nagg et Nell dans leurs poubelles et Hamm assis dans son fauteuil roulant – l’ambiance générale est, paradoxalement, plutôt gaie : en effet, des couleurs très vives et moins glauques sont visibles sur scène, et le metteur en scène a introduit des gags et traits d’humour, prenant aussi quelques libertés vis-à-vis des indications didascaliques extrêmement précises de Beckett, que Kurtág a recopiées à la lettre dans sa partition. Ces libertés, si elles s’éloignent de la vision originale de Beckett, n’en trahissent pas pour autant l’intention : cette prise de distance est même très intéressante, car elle met en lumière de nouveaux aspects de la pièce, qui restaient jusqu’alors inexploités.
L’opéra commence par un court prologue, que Kurtág a décidé d’ajouter à la pièce de Beckett : il s’agit d’une poésie du même auteur, Roundelay, chantée en anglais par la chanteuse qui interprète le rôle de Nell. Dès les premières secondes de ce prologue, la tonalité de « jeu » est annoncée : quelqu’un agite le rideau en lui donnant des coups par derrière, puis un personnage apparaît, bondissant devant le rideau, en costume noir avec un chapeau melon ; il fait penser à un personnage de one man show, avec son attitude ravie, un grand sourire aux lèvres, une attitude très ouverte, un halo de lumière au-dessus de lui ; il ouvre grand les bras, gesticule, esquisse quelques pas de danse très théâtraux, salue la cheffe d’orchestre, fait coucou à quelqu’un dans le public, puis se met à chanter Roundelay. Il faut dire l’attitude de ce personnage est très étonnante : pourquoi semble-t-il si heureux d’être là ? C’est assez inhabituel pour une pièce réputée déprimante et apocalyptique, mais cela proclame d’emblée haut et fort le parti-pris de gaieté amusée pris par le metteur en scène.

Une fois le prologue terminé, ce drôle de personnage disparaît, et le rideau s’ouvre. On découvre un intérieur, une grande boîte entièrement blanche, aux parois asymétriques, tout de biais, sans aucune arête de la même longueur, formant une perspective étrange et déformée. Côté cour, en bas à gauche du mur, une ouverture en guise de porte, dont le linteau est de biais, donnant accès à la cuisine de Clov ; à l’opposé, en haut à droite côté jardin, une fenêtre, formée de quatre parallélogrammes eux aussi déformés et chacun de dimension différente. Il n’y a qu’une seule fenêtre, mais tout au long de la pièce, plusieurs projections de lumière blanche de la forme de la fenêtre sont visibles sur tous les murs, comme si le soleil traversait plusieurs fenêtres, même si nous n’en voyons qu’une. Ces projections apparaissent et disparaissent au fur et à mesure, s’étendent, formant des grandes taches, puis disparaissent en fondu, parfois jusqu’à quatre ou cinq projections de tailles différentes en même temps, qui se superposent partiellement et recouvrent tous les murs. On retrouve naturellement au premier plan les deux poubelles canoniques, entièrement blanches elles aussi, ainsi que Hamm dans son fauteuil roulant, recouvert au début de la pièce, comme le voulait Beckett, d’un drap blanc.
Le metteur en scène a manifestement voulu traiter ses personnages comme des jouets un peu détraqués. Clov est affublé d’une perruque jaune très vif, comme une coiffure de poupée un peu « kitsch ». Il porte, lors de sa pantomime initiale, une échelle jaune de la même couleur que ses cheveux ; à la toute fin de l’opéra, lorsqu’il revient avec sa valise et menace de partir, il porte des bottes jaunes et un imperméable jaune. Cette passion de Clov pour les accessoires jaunes le fait ressembler étrangement à un joujou, comme un modèle de poupée « jaune » qui disposerait de différents accessoires qu’un enfant s’amuserait à lui faire enfiler.
Alors que les trois autres personnages sont parfaitement immobiles, Hamm dans son fauteuil roulant, Nagg et Nell dans leurs poubelles, Clov est le seul personnage apportant une mobilité : dès qu’il est sur scène, il arpente en long et en large tout l’espace, comme une pile électrique ne tenant pas sur place. Contrairement aux indications de Beckett et aux mises en scènes précédentes, Clov ne boite pas : ses jambes, au contraire, montrent une assez grande agilité, avec des grands pas ressemblant parfois à des pas de danse. Néanmoins, sa marche présente tout de même une forme d’empêchement, à la façon étrange dont il agite les bras, tord le haut de son corps, comme s’il allait tomber à tout moment ; sa marche est instable, comme si son torse était constitué d’un ressort le contraignant à un déséquilibre perpétuel : le metteur en scène a donc déplacé le handicap de Clov du bas vers le haut de son corps.
Hamm aussi est assez différent de ce qu’on s’attend en lisant les didascalies de Beckett. Il est lui aussi assez coloré, avec un châle multicolore placé sur ses genoux, et son fauteuil roulant est d’un bleu foncé très vif. Assis dans son fauteuil tout au long de la pièce, il est infirme au bas du corps ; le haut de son corps, en revanche, est très animé : Herbert Fritsch lui fait agiter les bras dans tous les sens, dodeliner énergiquement de la tête, tordre le torse dans une grande vivacité… Si bien qu’à le regarder, on n’aurait presque pas l’impression qu’il est infirme.
Quant à Nell et Nagg, ils apparaissent, sortant de leurs poubelles, la peau entièrement peinte en jaune, d’une couleur similaire au jaune de Clov, les faisant ressembler à des sortes de schtroumpfs jaunes. Leurs coiffures sont particulièrement ridicules : Nagg a des cheveux blancs hirsutes comme un nuage de fumée autour de lui, et Nell une perruque dont les reflets rosâtres font penser à des cheveux synthétiques d’une poupée de mauvaise qualité.
Tous les personnages sont donc des jouets, comme des pantins dysfonctionnants – à l’exception du personnage initial du prologue, qui est le seul habillé en noir, et apparaît comme un véritable humain et non comme une poupée. Si on voulait chercher à interpréter l’identité de ce personnage, on pourrait aller jusqu’à suggérer qu’il incarne la figure métathéâtrale d’un imprésario, ou d’un marionnettiste, qui présenterait son spectacle de pantins au public.

Herbert Fritsch réalise la prouesse de glisser de l’humour dans cette pièce difficilement réjouissante. Déjà, les costumes, et en particulier les perruques des personnages prêtent à rire par leur ridicule excessif ; il y a du comique de geste, avec par exemple le fait qu’à chaque que Clov veut aller dans sa cuisine, il se cogne dans le mur ; au moment de son avant-dernier monologue, Hamm fait une longue pause, si longue qu’au bout d’un moment, des musiciens de l’orchestre se lèvent pour le regarder et l’enjoindre à commencer ; la cheffe d’orchestre lui fait signe, « vas-y, commence », et celui-ci répond à son tour par un signe, « non allez-y vous » ; et cela, quatre ou cinq fois, sous les rires du public, avant que Hamm se décide finalement à commencer son monologue. Le metteur en scène s’est donc amusé avec ses personnages, jouant avec eux – en écho à la première réplique de Hamm, « À moi de jouer. ».
L’opéra se déroule en une succession de monologues, qui montrent l’impossible communication entre ces quatre jouets ; les propos sont décousus, les histoires qu’ils racontent sont inabouties, les dialogues sont lapidaires. Pas de grand air virtuose : la musique se fait elle-même décousue, se donnant un air inachevé ; l’orchestre, qui accueille par ailleurs des instruments assez inhabituels comme le célesta ou l’accordéon, est rarement sollicité dans son ensemble : les instruments jouent la plupart du temps par petits groupes, donnant une impression de musique de chambre. Paradoxalement, la musique ne vient pas combler le vide existentiel qui dévore les personnages : au contraire, elle se fait la caisse de résonance de ce vide.
Il est intéressant de noter le brouillage des frontières entre espace intérieur et extérieur dans la mise en scène de Fritsch. Conformément aux indications de Beckett, la pièce se déroule dans un espace intérieur oppressant. Pourtant, les projections de lumière en forme de fenêtres, dont il a été question plus haut, semblent suggérer une tentative de pénétration agressive de la lumière extérieure dans l’espace intérieur – et de façon d’autant plus marquée qu’il y a quatre ou cinq projections différentes, comme s’il y avait plusieurs fenêtres, rendant cet espace plus ouvert sur l’extérieur qu’il ne le semble à première vue. D’autre part, au fur et à mesure de la pièce, le plafond se décolle des murs de la pièce ; les murs et le plafond se mettent progressivement à tanguer, laissant apparaître le vide noir et angoissant qui entoure cette boîte blanche. Ce vacillement des murs donne un peu le mal de mer, comme si cet appartement était un bateau agité par la mer (cela est d’ailleurs cohérent avec le fait que Nell indique, lors de son dialogue avec Nagg, qu’ils vivent près d’une plage) ; cela montre d’autre part que les murs ne fournissent pas de protection vis-à-vis de l’espace extérieur. Enfin, tout au long de l’opéra, Clov entre et sort par l’unique porte située côté Cour ; mais à la toute fin, la valise à la main, il arrive soudain par le côté Jardin, ce qui a pour effet de dématérialiser et rendre vaine toute référence spatiale.
Si l’histoire est parfois longue, décousue et difficile à suivre, l’excellence vocale et musicale fait qu’on est constamment happé par la représentation, et les personnages captivent tout du long notre attention. Clov, interprété par Georg Nigl, a un timbre très coloré et raffiné ; ses intonations sont parfois bouffonesques, soulignant le caractère comique de son personnage. Philippe Sly, qui campe le rôle de Hamm, est un basse remarquable, à la voix dense et chaude, ronde et douce, au timbre ferme et constant. Charles Workman donne à Nagg une voix très claire, un brin nasillarde, extrêmement agile et expressive. Enfin, Hilary Summers, qui avait déjà interprété le rôle de Nell lors de la création de l’œuvre à la Scala en 2018 puis lors de la tournée inaugurale, donne à son personnage un caractère fascinant, avec une voix somptueuse, riche, dense et précise. La direction de l’Orchestre der Wiener Staatsoper par Simone Young est énergique et dynamique, tout en étant très rigoureuse, soulignant le caractère énigmatique et allusif de la partition de Kurtág.
C’est donc une production très réussie de Fin de partie qui se donne à voir à la Staatsoper de Vienne, présentant une vision originale de cette pièce tout en respectant les intentions originales de ses auteurs. Ce n’est certes pas un opéra facile, mais la forte impression qu’il laisse au spectateur permet de penser légitimement qu’il s’agit d’une des créations lyriques contemporaines les plus réussies.
Critique de Vincent Cipriani
Vu au Staatsoper de Vienne le 3 octobre 2025
Image de couverture: Ph (c) Wiener Staatsoper-Michael Poehn

