Di Diego Tripodi. Bologna, TBCO Comunale Nouveau: pulita e vivace la seconda recita dell’opera di Stravinskij con la regia di Gabriele Lavia e la direzione di Oksana Lyniv.
Nel 1982 René Girard pubblica Le bouc émissaire, saggio dirompente in cui ricostruisce la meccanica della persecuzione e, soprattutto, il modo in cui avviene la creazione delle vittime. Andando a pescare nel mito, naturalmente la partenza non può che avvenire dalla storia di Edipo, personaggio assai rappresentativo che congloba su di sé moltissimi caratteri vittimari, claudicanza e ignote origini innanzitutto. La storia poi presenta tutti gli stereotipi necessari alla creazione di un processo persecutorio: la peste, i segni, la colpa, l’espulsione. Insomma, si tratta di un archetipo del capro espiatorio.

Un altro francese, Jean Cocteau, tempo prima aveva ampiamente trattato il mito di Edipo, personalizzandolo ne La Machine Infernale (1934). Si trattava in realtà di un ritorno, dopo che, otto anni prima, aveva collaborato con Stravinskij per Oedipus Rex, in cui la tragedia sofoclea viene trattata in forma ibrida fra Opera e Oratorio.
Qui l’intuizione maggiore di Cocteau – che d’altro canto aveva le ali abbastanza tarpate dalle disposizioni assai nette del compositore russo – è l’introduzione di un narratore a mo’ di storico, uno “speaker”, un’idea che mantiene anche nel suo dramma autonomo successivo chiamandolo “La Voce” (La Voix humaine, ricordiamolo, è singolarmente l’altro caposaldo del suo teatro, nonché soggetto di un’altra fortunatissima messa in musica, questa volta da parte di Poulenc).
È interessante che, una volta trovatosi solo con il proprio progetto, Cocteau vi abbia impresso una direzione praticamente contraria a quella dell’Oedipus Rex, ossia volta a umanizzare i personaggi facendoli scendere dai loro piedistalli di simulacri arcaici. Si ravvisa anche qualcosa della ben nota teoria freudiana, un accostamento che, ad esempio, non ha affatto interessato Stravinskij, sbilanciato invece sul perseguimento dell’astrazione del soggetto.
Una via di mezzo, dove arcaismo e realismo si incontrano poeticamente, riesce a crearla Pasolini nel suo Edipo Re, film del 1967, in cui, fra l’altro, l’ampio ricorso a formule di straniamento (non ultimo uditivo) pongono la pellicola insospettabilmente vicina all’opera stravinskina, che usa la stessa tecnica, ancorché con fini e sensibilità assolutamente lontani.
Proprio il film pasoliniano, non da ultimo per l’omaggio bolognese del suo finale, è stato scelto per accompagnare, con alcune sue immagini, l’esecuzione dei Tre intermezzi sinfonici per l’Edipo Re di Sofocle che un giovane Ildebrando Pizzetti compose nel 1903 e che il Teatro Comunale di Bologna ha scelto come accostamento e introduzione all’Oedipus Rex di Stravinskij, andato in scena presso il Comunale Nouveau 7, 9 e 12 ottobre.

Al netto della serata a tema, i tre poemi di Pizzetti, lavori non indimenticabili, erano un riempitivo forse rinunciabile, per di più venendo schiacciati dalla malìa dei fotogrammi pasoliniani che distoglievano l’attenzione da una musica già di per sé inoffensiva.
Ad ogni modo, questa era la scelta e, come detto, dopo un breve intervallo, seguiva come atto unico il lavoro stravinskiano, per l’occasione con la regia di Gabriele Lavia e la direzione di Oksana Lyniv. Dopo una prima un po’ scialba e non esente da imprecisioni, la produzione si è riallineata in seconda recita agli standard di teatro e interpreti.
L’idea forte di Stravinskij di un’azione non agita, statuaria e marmorea, era scartata dalla regia che evidentemente ha voluto soprattutto declinare il lavoro in chiave operistica, concedendo ai personaggi il tradizionale movimento scenico, senza particolari accorgimenti; cosa che non ci ha convinto pienamente, perché, in proporzione alla materia teatrale, si rivelava una scelta meno esatta (più esile) dell’originale. Un soggetto così accattivante, senza necessariamente esigere di bloccarsi nell’immobilismo dell’immaginario originario, avrebbe potuto far scaturire delle soluzioni più interessanti.

La scena era essenziale e naturalmente fissa, occupata nella metà sinistra quasi interamente da file di sedie riservate al Coro, mentre sulla destra vi era una quinta come scarna e grigia facciata di palazzo. Sull’estrema sinistra, inoltre, emergeva dal terreno come un reperto, un grande volto statuario, quasi un mascherone tragico, sul quale spesso mollemente si adagiava dopo gli interventi lo speaker (in smoking, come da indicazione), ruolo interpretato dallo stesso Lavia. Infine, numerosi fari disposti ad emiciclo si ergevano, spenti per tutto lo spettacolo, accendendosi solamente (e un po’ troppo prevedibilmente) al fatidico Lux facta est! del discioglimento finale. Tutti, Coro e personaggi, salvo qualche piccola caratterizzazione, vestivano abiti da anni ’20, presumibilmente in omaggio all’epoca di composizione dell’opera.


Ma veniamo all’interpretazione musicale. Lyniv e l’Orchestra del TCBO hanno affrontato la partitura con esiti discontinui, ondeggiando fra momenti di approssimazione generale (tenuta ritmica, intonazione, momenti a solo) ed altri più ben eseguiti, scorrevoli, giusti nel carattere e nel colore ricavati.
Se la prima recita è stata maggiormente tempestata dalle difficoltà, con una tensione che non è riuscita a sciogliersi lungo il tragitto, la seconda recita è risultata assolutamente più pulita e molte delle imperfezioni erano risolte e il carattere generale dell’esecuzione più vivace, la direzione più presente e l’orchestra più efficiente.
Stessa cosa si potrebbe dire per il cast: anch’esso mediamente meno convincente al debutto, ha comunque fatto bene. Edipo era Gianluca Terranova, voce piena e luminosa, ha servito il ruolo con precisione e un’interpretazione coerente, che forse avrebbe potuto qui e là trovare una più radicale varietà timbrica. Atala Schöck era la regina Giocasta: pur non sempre perfettamente a fuoco, ha cantato bene la parte, destinataria della scrittura più concitata e puramente lirica del dramma.
Anton Keremidtchiev era sia Creonte che il Messaggero e nell’uno e nell’altro ha dato prova di ottimo mestiere. Sorin Coliban era un Tiresia giustamente sacerdotale che ha cantato con dedizione la sua aria. Bello infine il timbro di Sven Hjörleifsson, che ha valorizzato il ruolo relativamente secondario del Pastore.
Ancora una volta, anche se ridotto alle sole voci maschili, il Coro del Teatro Comunale (beniamino indiscutibile nell’Oedipus Rex) ha dato un’ottima prova, confermandosi una formazione sempre preparatissima, precisa, sicura, ad ogni grado espressiva. Ed anche per questa produzione stravinskiana, l’esito della preparazione è merito di Gea Garatti Ansini.
Recensione di Diego Tripodi
Bologna, Comunale Nouveau, visto il 7 e il 9 ottobre 2025
AVVERTENZA
È fatto divieto a giornali e blog di pubblicare integralmente o parzialmente questo articolo o utilizzarne i contenuti senza autorizzazione espressa scritta della testata giornalistica DeArtes (direttore@deartes.cloud).
La divulgazione è sempre consentita, liberamente e gratuitamente sui rispettivi canali,a Teatri, Festival, Musei, Enti, Fondazioni, Associazioni ecc. che organizzano od ospitano gli eventi, oltre agli artisti direttamente interessati.
Grazie se condividerete questo articolo sui social, indicando per cortesia il nome della testata giornalistica DeArtes e il nome dell’autore.

