Di Diego Tripodi. Bologna Festival: l’esecuzione di MDI ha puntato a un’ideale purezza, a tratti affilata, della scrittura di Terranova.   

Quarto appuntamento de Il Nuovo l’Antico l’Altrove di Bologna Festival, tenutosi mercoledì 8 ottobre come d’uopo presso l’Oratorio di S. Filippo Neri, “A sedici corde” è stato un concerto che, come suggerito dal titolo, vedeva il quartetto d’archi quale suo centro.

Ospite era MDI Ensemble, formazione che da più di due decenni si prodiga per la musica contemporanea, alimentando costantemente la propria ottima reputazione, e che per l’occasione era ristretta per l’appunto ai soli quattro archi: Corinna Canzian ed Elia Leon Mariani ai violini, Paolo Fumagalli alla viola, Giorgio Casati al violoncello.

La serata, in coproduzione con Ferrara Musica – in replica il 13 ottobre presso il Teatro Comunale della città estense – era fondamentalmente dedicata alla musica di Daniela Terranova, fra le voci compositive italiane più in vetta della sua generazione e che era destinataria di una nuova commissione dal Festival, esaudita con il brano A slash of blue, a sweep of gray, some scarlet patches on the way. Ovviamente si tratta di un quartetto per archi, il cui titolo di wertmülleriana lunghezza, è dato dal fatto che ruba le tre lines iniziali di una poesia di Emily Dickinson dal suggestivo richiamo pittorico.

Sono molti i titoli del catalogo di Terranova che sconfinano nel mondo del colore. Neanche il brano d’apertura al concerto si sottraeva a ciò, il trio Rainbow dust in the sky, nel cui titolo addirittura si evoca l’intero spettro cromatico dell’arcobaleno e che in verità, ancor una volta, è un rimando ad altro, nello specifico a Over the rainbow, la notissima canzone, che qui viene polverizzata (dust) dalla compositrice in rena sonora attraversata da baluginii. È la luminosità di questi che rimanda all’arcobaleno e ai suoi colori, in cui una terza minore cullante resta come unica scoria ad indizio dell’ispirazione del brano.

Il colore dunque è il motore di tutto: non si può soprassedere ed è la stessa autrice che ci racconta, nel breve dialogo introduttivo con Paolo Fumagalli, il ruolo che occupa nel suo atto creativo la suggestione coloristica, in una sorta di sinestesia, di reticolo di associazioni, per cui l’indagine privilegiata musicalmente diviene quella timbrica.

Ed in effetti il mondo sonoro di Terranova vede, o sente, la prevalenza di una superficie rilucente, vetrata, fatta di trasparenze e di ramificazioni. Potremmo dire l’anticamera del rumore e non il rumore in sé, perché il passo non varca la soglia, la materia musicale rimane aperta in uno stato prenatale in cui il suono si intravede, è in gestazione, è desiderato, ma inespresso, o meglio potenzialmente espresso. La fascinazione fatta di sonorità altre, estese, etc., in realtà non prevarica costruzioni ordinate e col pregio dell’intellegibilità.

Così per esempio nel quartetto di nuova composizione, in cui suoni più o meno effimeri stratificavano in fasce o si disgregavano seguendo chiari pannelli formali. Il mondo sonoro di riferimento è forse quello di Lachenmann, parzialmente di Sciarrino, o persino qualcosa del rigorismo del suo maestro Beat Furrer, più in generale anche tutto uno spazio liminale che potremmo riassumere come post spettralista. Insomma molti e in realtà anche tanto diversi rimandi. Per dire che un orientamento di comodo, giusto perché voi lettori che non avete potuto ascoltare possiate orientarvi, riesce in definitiva fuorviante ed ingiusto. La personalità di Terranova, senza escludere evidentemente debiti e reminiscenze, afferma una sua indipendenza.

Sempre più facile, con cuore più leggero, si riesce infatti ad esprimersi nei confronti di parentele più lontane nel tempo, filiazioni ideali, meno “cavillabili”; e così è la stessa compositrice che ha suggerito per il concerto, come accostamento alla sua opera, il Quatuor op.10 di Debussy, l’antesignano liberatore del timbro.

Un punto certamente interessante emerso dalla presentazione, è il piacere/necessità di Terranova di comporre su misura per l’interprete, immaginando e trasferendo la tipicità esecutiva di gesti e naturalmente abilità tecniche nella propria scrittura, cosicché le composizioni funzionino perfettamente, quasi, soltanto nelle mani dei loro ispiratori/dedicatari. Al di là del fascino, certamente ciò indica un’attenzione particolare nell’atto compositivo, che di sicuro si rivela un ottimo investimento in fase esecutiva e, difatti, l’interpretazione di MDI ci è parsa assolutamente perfetta nel rispondere alle sollecitazioni della partitura.

Abbandonando il nuovo per l’”antico”, diremo che l’Ensemble milanese ha dato del capolavoro di Debussy una lettura disadorna, senza concessioni inutili, che ha puntato ad un’ideale purezza, a tratti affilata, come nel primo movimento, e certamente “moderna”. Ciò era particolarmente vero quando è la stessa scrittura che si spinge in premonizioni facendosi più sperimentale e proprio più timbrica  (certamente le evocazioni ispaniche dello scherzo Assez vif et bien rythmé, ma anche molti slittamenti cromatici dell’Animé o del Très mouvementé). Con ciò non vogliamo far intendere che l’esecuzione sia stata spigolosa o inespressiva: per esempio, tutt’altro ci è apparso l’Andantino, forse il momento in realtà più convincente dell’interpretazione, dove anche un’inevitabile maggiore sensualità, che era invero un po’ mancata, ha preso piede espandendosi dapprima nel canto commosso del primo violino, poi del violoncello e così via andare, costituendo in massimo grado una splendida sinergia emozionale fra i quattro musicisti.

Recensione di Diego Tripodi
Bologna Festival, Oratorio di San Filippo Neri 8 ottobre 2025
Immagini: (c) BolognaFestival

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