Di Maria Luisa Abate. Verona, Settembre dell’Accademia: il respiro di Beatrice Rana; lo stato di grazia di Riccardo Minasi; la perfezione dell’Orchestra.
Un tocco leggero nondimeno incisivo. La precisione non ostentata e vissuta con naturalezza nel cavalcare il genio beethoveniano, abbandonandosi a esso. Il piacere, e la meraviglia, della riscoperta d’ascolto non sono venuti solo da Beatrice Rana, esponente di una ristretta cerchia di numeri uno del pianismo internazionale, ma anche, anzi soprattutto, dal direttore Riccardo Minasi, presentatosi in stato di grazia sul podio di una stratosferica e ineccepibile Deutsche Kammerphilharmonie Bremen, una delle più importanti formazioni orchestrali del panorama odierno, in cui figura un alto numero di maestri dalla carriera solistica.
Un concerto extra-ordinario ha concluso la stagione – interamente extra-ordinaria – del Settembre dell’Accademia, che ha lambito ottobre chiudendosi il primo del mese al Teatro Filarmonico di Verona, e che la sera successiva ha riscosso eguali consensi anche a Torino, nella stagione del Lingotto.
Il programma era dedicato a tre fra i massimi esponenti ottocenteschi del romanticismo musicale tedesco. Il cui inizio gli studiosi fanno coincidere con Carl Maria von Weber e in special modo con la sua produzione operistica, attraverso la quale seppe dare impulso ai nuovi fermenti germanici abbandonando, o per lo meno arginando, le influenze italiane, che sporadicamente tornano a fare capolino. Nell’Ouverture da Der Freischütz (Il franco cacciatore) Weber affida all’orchestra un ruolo determinante nello sviluppo della propria creatività compositiva, focalizzata sul rendere questa ouverture un autentico sunto musical-drammaturgico dell’opera nel suo susseguirsi di svariati contesti, atmosfere, forme. Grande duttilità e capacità interpretative sono quindi state richieste alla Deutsche Kammerphilharmonie Bremen, dal grado di preparazione indiscutibilmente eccelso, e che Minasi ha condotto attraverso la ricchezza dei temi melodici con vivacità e fervore, procedendo dal crescendo iniziale in direzione dei riferimenti al soprannaturale, traghettando le atmosfere cupe della foresta verso il chiarore di una pacificazione conclusiva, dosando come un alchimista gli spunti umorali e una fedele descrittività, in una esplosione di brillantezza, timbrica e non solo.
Il gesto di Riccardo Minasi sul podio era affascinante da osservare, assai accentuato, quasi attoriale; ciò intendendo come compimento ultimo d’un percorso espressivo “totale” grazie al quale ha scovato grandi e piccole sfaccettature del romanticismo weberiano. In altre parole Minasi è riuscito nell’intento, facile a dirsi meno a farsi, di inserire la musica in un quadro complessivo comprendente ogni arte e il sapere in senso lato, tra cui il pensiero filosofico e la letteratura. Caratteristica risultata determinante per un ascolto rivelatore di quest’ouverture che, come si diceva, racchiude in sé ogni elemento dell’opera, la quale segue il modello del Singspiel, ossia l’alternanza di parti cantate ad altre recitate. Nell’ouverture ovviamente non sono presenti momenti recitati ma il suggerirli, il lasciarli intuire, è stato compito della compagine strumentale, con esiti sorprendenti.
Se a Carl Maria von Weber è ascritto il merito d’aver segnato l’inizio del romanticismo musicale tedesco, Johannes Brahms è giudicato colui che lo ha chiuso. Non a caso, in conclusione di concerto abbiamo ascoltato la Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98, l’ultima composta da Brahms e apice della sua produzione sinfonica. Determinante è stata la capacità di direttore e orchestra di separare e poi miscelare i colori, di soffermarsi sui contrasti oppure di sfumarli, di esaltare le variazioni e le densità timbriche in partitura, di usare come strumenti espressivi i cambi ritmici brahmsiani senza mai perdere di vista l’architettura della forma-sonata e la sua varietà tematica. Da abbandoni malinconici a esplosioni di grandiosità, da parentesi raccolte a impeti dinamici assoggettati alla potenza volumetrica del suono, assecondando gli antagonismi del lessico musicale insiti nei diversi movimenti: su tutto è risultata splendere una luce brillante e vivace. Come bis, dopo una breve amichevole chiacchiera rivolta al pubblico, l’Ouverture nello stile italiano di Schubert, che ha concluso la serata tra gli applausi.
È d’uopo tornare ora indietro alla parte centrale del programma, che ha visto l’intervento di Beatrice Rana. Brahms si considerava erede e prosecutore di Beethoven e all’immenso Ludwig si è accostata la celeberrima pianista, con il Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in do minore op. 37. Un monumento di cui in queste nostre righe non dovremmo nemmeno preoccuparci di rammentare la forza plastica e la particolarità dell’ambizione quasi sinfonica, ma che presenta pure un’anima cameristica sottesa e latente alla quale la solista ha più volte fatto ricorso. Sul respiro, sulla cantabilità, su una luminescenza traslucida scevra di eccessi abbaglianti, si è concentrata Beatrice Rana, in un continuo integrarsi e discostarsi dal dialogo con l’orchestra, prendendosi al momento opportuno spazio protagonistico per poi ricompattarsi all’insieme, con perfetta, e all’uopo mutevole, sorveglianza dell’equilibrio dinamico. Modulando la dialettica con sensibilità espressiva, la concertista ha passato quindi il “volante” dal pianoforte all’orchestra, per poi riafferrarlo saldamente con una specialissima energia che ha trovato la sua ragione d’essere nella delicatezza, il suo must esecutivo. Del resto, la non ostentazione nasce dalla sicurezza dei propri mezzi tecnici e interpretativi e sulla capacità quasi zen di affrontare la partitura senza stress, con naturalezza.
Un pianismo in cui l’uso del pedale non è stato secondo, in accortezza, al tocco delle dita sui tasti; un pianismo sobrio e di classe, dove le note sono state snocciolate con precisione e soprattutto con lucidità di intenti favorita dal fraseggio elegante, anch’esso ossigenato dai respiri.
Il suo bis ha riguardato l’Intermezzo dal tcahikovskiano Schiaccianoci nella trascrizione di Pletnëv, quasi come se il virtuosismo fine a se stesso fosse improvvisamente diventato un’urgenza, un imprescindibile bisogno dialogante condiviso con il pubblico.
Recensione di Maria Luisa Abate
Verona, Settembre dell’Accademia, Teatro Filarmonico 1 ottobre 2025
Immagine: foto Studio Brenzoni
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