Non si sono visti stucchevoli riferimenti didascalici a una Cina da cartolina nella Turandot immaginata da Giuseppe Frigeni, che ha firmato regia, coreografia, scenografia e luci dell’allestimento andato in scena al Teatro Regio di Parma, coproduzione 2003 con il Teatro Comunale di Modena e Fondazione I Teatri di Piacenza.

L’assenza di stereotipi si è conciliata con l’intento favolistico dei librettisti Adami e Simoni ispiratisi alla fiaba teatrale di Gozzi, fra tinte di insistita cupezza e controscene spiritose, vedasi i volti animaleschi delle superindaffarate inservienti dei ministri Ping, Pong e Pang. Ravvisabile inoltre nella gestualità, che nella lentezza ha trovato una sorta di solennità rituale. La Cina – di Pekino ai margini, e del palazzo imperiale al centro – è stata identificata attraverso elementi basici quali le proporzioni, le simmetrie, le opposizioni riassumibili in Yin e Yang. Scene e costumi (questi ultimi di Amélie Haas) hanno ruotato attorno al contrasto bianco/nero. Una full immersion in atmosfere notturne con finestre scorrevoli apertesi su spazi di luce e di colore, dal nero della morte che attende i pretendenti incapaci di risolvere gli enigmi, al chiarore lunare emanato da Turandot. Il barlume della speranza per Calaf, che canta il celeberrimo “Nessun dorma” al buio, illuminato da un riflettore solo dopo le parole “dilegua, o notte! tramontate, o stelle!”, e il bagliore dell’amore che a poco a poco si insinua nell’animo di Turandot, presentatasi sdegnosamente di spalle. Per il regista, la principessa di gelo non è una crudele mozza teste ma la fiera discendente dell’antenata Lo-u-Ling, fatta preda di guerra da uno straniero che non è andato troppo per il sottile. Il ghiaccio che ne cinge il cuore altro non è quindi che una corazza protettiva.

La scelta di procedere per contrasti simmetrici è ricaduta anche su Turandot e Liù, due facce complementari della femminilità: nella prima, declinata in nevrosi difensiva, mentre la seconda ha insegnato ad affrontare l’amore con sacrificio. I due opposti si sono attratti nella conclusione, quando Turandot, arresasi al sentimento, si è sdraiata accanto al cadavere di Liù, protendendo una mano verso di lei in un gesto osmotico.
Calaf, uomo forte, deciso, ambizioso, cinico, sulle ultime note ha afferrato il mantello che aveva seduttivamente tolto a Turandot, simbolo della conquista, e, nell’invenzione registica che ha sovvertito il finale roseo scritto da Alfano (l’opera rimase incompiuta alla morte di Puccini), ha girato le spalle alla futura sposa e si è avviato verso il trono dell’Imperatore, anteponendo il potere all’amore.

Valerio Galli ha scelto dinamiche improntate alla potenza espressiva, e ha stemperato la tensione drammatica tra abbandoni poetici, in un percorso che ha seguito splendidamente l’evolversi dei sentimenti cantati in musica da Puccini. Risalto alle percussioni, agli interventi della banda fuori scena, ai momenti corali che l’Orchestra Filarmonica dell’Opera Italiana “Bruno Bartoletti” ha accompagnato con suggestivi suoni rarefatti. A preparare con competenza il coro del Teatro Regio era Martino Faggiani, mentre Eugenio Maria Degiacomi si è dedicato a istruire il Coro di voci bianche Ars Canto “Giuseppe Verdi”, anch’esso dietro le quinte.

Una bella comunione di intenti tra direzione musicale e registica, estesa agli interpreti. Rebeka Lokar ha magnificamente fatto proprio il ruolo di Turandot senza ricorrere ai tradizionali inspessimenti o inasprimenti della voce, ma puntando con freschezza di intuizione sulle sue magnifiche caratteristiche naturali, dalla duttilità di emissione alla marmorea base tecnica, non ultima la capacità di introspezione del personaggio. Ne è uscita una figura di ammaliante magnetismo, la cui carica di femminilità era da preservare come bene intimo e privato. Il principe ignoto Calaf era Carlo Ventre, sontuosamente proiettato, solido nella tenuta dello squillo e dell’intera gamma. Potenza (“Nessun dorma”) ma anche colori (“Non piangere Liù”) e smorzature dinamiche indispensabili per l’espressività, sorretta dal fraseggio accorto: elementi importanti per bilanciare la recitazione che la regia ha dettato fredda e distaccata. Del tenore uruguayano, così come del soprano sudcoreano cui era affidata la parte di Liù, si è apprezzata la dizione perfetta e chiaramente intelligibile.

Vittoria Yeo ha fatto sfoggio di filatini opalescenti, di mezze voci dalla trasparenza di giada, di smorzature soffici con le quali ha reso la nobile umiltà della dolce schiava, scaturita dalla forza interiore, la stessa che in lei motiva la generosità di sentimento. Una grande carica di umanità è emersa in Timur, ruolo breve ma intenso che Giacomo Prestia ha padroneggiato con sapienza per averlo sostenuto in molte occasioni, qui donandogli tutta la sobria dignità di un sovrano spodestato ed esule. Amalgamati e sinergici Fabio Previati Ping, Roberto Covatta Pang, Matteo Mezzaro Pong. Solenne l’imperatore Altoum di Paolo Antognetti. Inoltre Benjamin Cho Mandarino, Marco Gaspari Principe di Persia, Lorena Campari prima ancella, Marianna Petrecca seconda ancella.

Nella giornata dell’inaugurazione istituzionale di Parma Capitale Italiana della Cultura, coincidente con la terza replica di questo titolo, ha assistito alla recita dal palco reale il Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, accolto dal pubblico con un applauso affettuoso e veramente interminabile (peccato non avere cronometrato), prima che l’orchestra attaccasse l’Inno di Mameli. Che, pare questa la sede giusta per ricordarlo, a Goffredo Mameli deve le parole mentre la musica è stata composta da Michele Novaro (sarebbe come attribuire Turandot a Adami e Simoni, tacendo di Puccini).

L’ultima delle repliche in cartellone è stata trasmessa in diretta su OperaStreaming.com. Questa, come le altre produzioni operistiche in chiaro sul canale You tube del circuito, resterà visibile gratuitamente per sei mesi.

Recensione Maria Luisa Abate

Visto al Teatro Regio di Parma il 12 gennaio 2020
Contributi fotografici: Roberto Ricci