Il dramma di Tennessee Williams portato in scena da Elena Sofia Ricci e Gabriele Anagni per la regia di Pier Luigi Pizzi.

Premessa: adoriamo Pier Luigi Pizzi, uno dei veramente grandi (la parola è spesso abusata) Maestri del Teatro ancora in splendida attività, stimato sui palcoscenici dell’opera lirica ma anche apprezzato curatore doc di importanti allestimenti museali. Pizzi è regista, costumista e pure scenografo e le sue linee geometriche, eleganti, sobrie e in grado di creare volumi e chiaroscuri, le abbiamo ritrovate in “La dolce ala della giovinezza”, produzione che il Teatro della Toscana porta da tempo in tournée, approdata al Teatro Sociale di Mantova nel cartellone organizzato dalla Fondazione Artioli. Apriamo una doverosa parentesi di bilancio, trattandosi dell’ultimo titolo della stagione. Un bravo sincero va al direttore artistico Raffaele Latagliata, riuscito anche quest’anno a riempire, in ogni data, un teatro notoriamente difficile come questo e che nel presente caso ha registrato un lusinghiero sold out: i risultati del suo operato parlano da soli.

Tornando allo spettacolo, Pizzi ha trovato terreno fertile nella compagnia che ha visto nei ruoli principali Elena Sofia Ricci e Gabriele Anagni. La mano esperta della regia da un lato e le doti personali degli attori dall’altro, ma anche, non va dimenticato, la traduzione del testo a firma di un altro gigante quale è Masolino D’Amico, hanno portato a una messa in scena del lavoro di Tennessee Williams psicologicamente incisiva, lucida e netta al limite della crudezza. I personaggi di Alexandra del Lago, attrice in declino alcolizzata e impasticcata (avvolta in abiti velati per celare i segni lasciati dal tempo, ma nella realtà atti a mascherare la prestanza fisica di Ricci, anagraficamente giovane per il ruolo) e del gigolo Chance Wayne (che esibisce in modo sfacciato il corpo piacente) sono risultati assai marcati nei caratteri, e a lui è stato riservato il finale, in questo allestimento discostatosi dal testo originale.

Caratteri scolpiti nella pietra dunque, come dovuto a Tennessee Williams, che predilige figure di intensa drammaticità, tormentate, preda di devastanti spasimi interiori, «ai limiti del delirio, sul bordo dell’abisso» come scrive Pizzi nelle note di regia. Una drammaticità tagliente come la lama di un rasoio, sempre in bilico tra illusioni e disillusioni, tra speranze che si riaccendono e sogni che si infrangono.

I protagonisti si sono tenuti saggiamente distanti dalla lontana versione cinematografica di Geraldine Page e Paul Newman del 1962 (pure protagonisti del debutto a Broadway avvenuto nel ‘59), così come dall’impossibile da non paragonare “Il viale del tramonto”, circa il quale ha fatto storia l’inarrivabile film di Billy Wilder.

Una maschera di devastazione lei, di disarmante vuotezza d’animo lui: caratteristiche dei personaggi abilmente create sulla scena dai due interpreti. Elena Sofia Ricci camaleontica nel passare dall’urlo angosciato, al cinismo, al riso consolatorio; nel soppesare e alternare pesantezze di macigno e leggerezze d’animo. E mai volgare nell’esternare la mancanza di purezza sottolineata, per contrasto, dal mazzo di gigli bianchi che ha stretto al petto. Gabriele Anagni, al quale forse possiamo addebitare uno svolgimento monotonale, comunque abile nel bilanciare il parassitismo di Chance con la residua dose di umanità che sporadicamente riaffiora in lui, pur nella consapevolezza di una vita irrimediabilmente naufragata. Invero non memorabile il resto del cast, in brevi apparizioni.

Così, anche se il testo scritto nel 1952 risulta datato, in particolare quando accenna agli agghiaccianti metodi punitivi razzisti della società dell’epoca, la situazione è risultata attuale. Lo spettatore ha assistito alla desolazione di un mondo vacuo e patinato non dissimile oggi da allora, alla spasmodica ricerca di successo e di visibilità che, dalle primedonne, si estende a tutto quel substrato subdolo che ruota attorno allo star system. Williams/Ricci/Anagni/Pizzi hanno mostrato con vividezza lo spaccato della vita che si svolge quando i riflettori si spengono. La tragedia di chi recita sempre con se stesso. E pur se nel finale l’attrice apprende di non essere fallita, come credeva, nulla cambia nella sostanza: è il dramma dello squallore, della anaffettività, della solitudine, del vuoto interiore.  

Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Sociale di Mantova il 14 marzo 2023
Foto Pino Le Pera