Due cast: Oropesa, Meli, Piazzola, Battistoni. Poi Netrebko, De Tommaso, Salsi, Armiliato.

Lisette Oropesa e Francesco Meli: due voci al top del panorama mondiale, assieme ne La traviata andata in scena all’Arena di Verona. Nell’accattivante alternanza di cast, abbiamo potuto godere di quella che, a personale giudizio di chi scrive, è una delle migliori accoppiate soprano/tenore qui udite nel capolavoro di Verdi. Seguita, nell’ultima data del titolo, da un’altra accoppiata stratosferica, stavolta tra soprano e baritono: Anna Netrebko e Luca Salsi. Aggiungiamo la firma alla regia di Franco Zeffirelli a sancire un successo di prevedibilità matematica.

“Violetta mon amour” si intitolavano le note di regia datate 2019, anno in cui questo allestimento debuttò in Arena pochi giorni dopo la scomparsa del maestro Zeffirelli. La sua arte la ritroviamo soprattutto nell’impianto scenografico frutto dei suoi bozzetti. E in quella capacità speciale, che il maestro aveva, di unire, con profondità, la dimensione spettacolare a quella intimistica. «[…] Anche in un tempo in cui non ci saremo, la parabola della Traviata continuerà a suscitare emozioni profonde e nascoste nell’animo di chiunque la vedrà e la ascolterà», scriveva.

Questa Traviata si svolge come un flash back. Sul preludio, una processione funebre formata da un prete e da uno sparuto gruppetto di amici, i pochi rimasti accanto a Violetta fino alla fine, segue la carrozza che la conduce all’ultima dimora. In disparte, Alfredo, resosi conto di aver sprecato quell’amore, di averlo compreso solo ora che è troppo tardi, solo ora che tutto è compiuto.

Il sipario rosso si apre mostrando il palazzo della Valéry, suddiviso su due piani a vista: quello superiore, riservato alla sfera personale e intimistica, mentre la stanza sottostante brulica di ospiti festanti. Dai palchi teatrali che incorniciano lateralmente l’edificio, Alfredo osserva Violetta, come se la vita di lei fosse una drammatica rappresentazione: dell’amore negato, dei sacrifici inutili, delle speranze tradite, dei sogni chiusi in una gabbia come le bianche colombe nella voliera della casa di campagna dove i due innamorati si sono rifugiati in un romantico esilio destinato a essere tarpato.

Poi il ritorno a Parigi, e la struttura scenica si scompone e si ricompone nel sontuoso salone delle feste: l’allegria degli invitati, il ballo delle zingarelle e dei toreri (costumi Maurizio Millenotti), tra saltimbanchi e giocolieri, tra ondeggiare di lanterne e sparo di lustrini (evidentemente sopravvissuti ai divieti che avevano contrassegnato Barbiere), fino allo schiaffo morale che soppianta l’amore e che si protrae fino agli ultimi istanti di vita di Violetta, sola, immersa nella penombra di una casa deserta e triste (luci Paolo Mazzon), dove il chiacchiericcio degli ospiti è un appannato ricordo e dove non tintinnano più i calici dei brindisi.

Avevamo già avuto il piacere di sentire, in Arena e in Traviata, queste stesse tre voci protagonistiche di soprano, tenore e baritono, ma non assieme. Gli interpreti hanno confermato i lusinghieri successi degli scorsi anni, e li hanno coronati con un affiatamento che non è stato solo scenico. Una comunione di intenti che ha trovato riscontro nella linea stilistica condivisa improntata alla raffinatezza, al gusto, alla classe.

Lisette Oropesa, soprano che tutto il mondo si contende nel ruolo di Violetta, ormai presenza fissa nelle estati areniane, ha saputo anche in questa occasione passare con naturalezza dai virtuosismi del primo atto ai toni fortemente drammatici dell’ultimo. Il soprano statunitense di New Orleans, oltre a essere una bellissima donna, vanta un timbro fascinoso, rilucente e vellutato. Possiede tecnica e sensibilità, fiato, potenza, proiezione e non comuni doti interpretative nella resa dei diversi stati d’animo della Valéry, della quale ha fatto emergere la solitudine interiore che le ha devastato il corpo finché questo ha ceduto di schianto alla malattia, facendo venire un groppo in gola di commozione al pubblico.  

Lui pure presenza ricorrente da molti anni in Arena ed egualmente richiesto in ogni angolo del mondo per vestire i panni di Alfredo, Francesco Meli, noto per l’eleganza nel canto, per il timbro suadente, per i ceselli con cui cura i dettagli, per il fraseggio levigato. Il tenore, oltre all’acuto saldo e ben poggiato, ha fatto sfoggio della sua famosa dotazione di mezze voci, di smorzature, di pianissimo, che in questa serata ha particolarmente accentuati e rimarcati. Un Alfredo che Meli ha dotato di sensibilità e di cuore, poi di rabbia, di disprezzo, infine di sincero dolore.

Completava la terna dei protagonisti Simone Piazzola, nel ruolo che anch’egli padroneggia di papà Germont, come da copione fedele alle regole imposte alla società, freddo distaccato e insensibile nel considerare i sentimenti altrui che sta violando. Per il baritono, carte vincenti sono state la voce sontuosa, la linea di canto nobile, l’interpretazione intensa.

Nei ruoli di fianco si sono lodevolmente distinti Sofia Koberidze, Flora; Francesca Maionchi, Annina; Carlo Bosi, Gastone; Nicolò Ceriani, Barone Douphol; Gabriele Sagona, dottor Grenvil. E ancora i valenti Roberto Accurso, Marchese d’Obigny; Francesco Cuccia, Giuseppe; Stefano Rinaldi Miliani, Domestico e Commissionario.

Molto applaudita la prova del Ballo coordinato da Gaetano Petrosino che, su coreografie di Giuseppe Picone, ha animato la festa, con Liudmila Konovalova, prima ballerina dell’Opera di Stato di Vienna, e Douglas Zambrano, giovane solista areniano al suo debutto come primo ballerino nell’anfiteatro.

Ulteriore conferma di precisione canora, oltre che di presenza scenica, è venuta dal Coro areniano, portato a una preparazione ottimale da Roberto Gabbiani. Ennesima serata più che positiva anche per l’Orchestra della Fondazione Arena di Verona. Sul podio è salito Andrea Battistoni. Tanto il gesto del maestro è parso esuberante, quanto la sua direzione è risultata calibrata, ricca di colori accesi ben dosati, dalle dinamiche vivaci. La sua lettura si è protesa alla ricerca delle atmosfere verdiane, drammatiche o liriche che fossero, senza mai sottacere la spiccata personalità direttoriale che lo contraddistingue.  

L’ultima replica de La traviata, con un diverso cast, è fissata per il 9 settembre.

Recensione Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 27 luglio 2023
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona


CAST ALTERNATIVO: ANNA NETREBKO, FREDDIE DE TOMMASO, LUCA SALSI, DIRETTORE MARCO ARMILIATO

Sublime, splendente, sorprendente Anna Netrebko. Sì, sorprendente, perché nonostante sia unanimemente considerata la numero uno al mondo, e quindi da lei fosse prevedibile l’ennesima prova di eccellenza, il soprano russo naturalizzato austriaco ha superato ogni aspettativa, confezionando una recita più che memorabile: unica.

Netrebko è tornata a rivestire quel ruolo che aveva debuttato a 23 anni, che l’aveva in seguito consacrata nell’Olimpo internazionale, e che aveva abbandonato dal 2017. Per l’occasione speciale, l’Arena di Verona era sold-out ed erano stati aggiunti posti laterali per soddisfare tutte le richieste del pubblico, mentre all’esterno si aggiravano loschi i bagarini (spettatori: non cadete nella trappola truffaldina e rivolgetevi ai canali ufficiali e onesti). La gente elegantemente abbigliata affollava Viale Mazzini nella consueta passeggiata pre spettacolo canticchiando le note verdiane o dando vita a discussioni musicali d’anteprima. Insomma, nella recita conclusiva del Festival numero 100 si è respirata la medesima aria di festa della ‘prima’. Ed entrambe le occasioni, l’inaugurazione e la chiusura di stagione, sono state illuminate dal fulgore stellare di Anna Netrebko.

Scriveva Giuseppe Verdi: “Per la Traviata si richiede una prima donna di altissimo sentire, di canto appassionato, e di bella presenza”. Potremmo non aggiungere null’altro alle parole del Maestro che paiono condensare l’interpretazione del grande soprano. Perché questo, ha fatto Netrebko, al di là delle meraviglie della voce: ha creato il personaggio con “altissimo sentire”.

Dal suo debutto in questo ruolo di “coloritura drammatica” (definizione che la dice lunga sulle mutevoli capacità richieste all’interprete) il repertorio della “diva” si è poi indirizzato verso differenti titoli e autori, così come si è fisiologicamente evoluta la sua voce, fattasi oggi ancora più corposa e ancora più rotonda, arricchita di magnifiche screziature brunite. Voce che ha mantenuto quella caratteristica che la rende unica nel panorama mondiale: emana una luce cangiante, ora radiosa e trasparente, ora materica e abbagliante, ora di madreperlacea opalescenza. Una voce capace di espandere nell’aria un pulviscolo iridescente che assume, di volta in volta, il fulgore dell’oro, il tintinnio dell’argento, i bagliori multi-sostanza del bronzo, oppure di addensarsi, di inspessirsi, di definirsi con la precisione di un raggio laser.  

Una luminosità fattasi lucidità intellettiva nella costruzione vocale e attoriale del personaggio, che Netrebko ha tratteggiato con dovizia di particolari, di spunti, di intuizioni profondissime, in una successione che ha portato a un finale autenticamente commovente. Dalla prima nota all’ultima, si è prodigata in una sequenza ininterrotta di raffinatezze, di ceselli che avrebbero fatto invidia a Benvenuto Cellini, di torniture rarissimamente udite e mai in tal numero, mai con tale profusione e con simile rispondenza interpretativa sublimata nella presenza scenica carismatica e catalizzatrice portata all’estremo grado. Si è potuta perfino permettere di cantare alcune pagine girata di spalle nel corso di un movimento scenico, altre impallata involontariamente dal tenore, e la voce è corsa per l’anfiteatro come nulla fosse, con una proiezione ottimale.

Accantonato il consueto abito azzurro, forse per lei troppo bamboleggiante, è entrata in scena biancovestita, quasi a cercare un segno distintivo, un elemento proprio caratterizzante anche allo sguardo. L’evoluzione della linea di canto è andata di pari passo con i tre aspetti del dettato autorale – brillante nel primo atto, lirico nel secondo, drammatico nel terzo – grazie anche a un fraseggio da manuale, che ha fatto testo.

Le prime note, a inizio d’opera, sono suonate inspessite nel timbro. Sensazione durata un attimo, perché nel giro di poche battute Anna Netrebko è decollata verso l’empireo. Un primo atto magnificamente interlocutorio, quasi che la cortigiana Violetta fosse stupita e intimidita dall’essersi scoperta innamorata, quasi non fosse pronta a vivere quel sentimento inatteso. Una traccia intima e personale che, forse anche per prudenza, è sfociata nella chiusa del “Sempre libera…” senza il mi bemolle sopracuto, nota entrata nella consuetudine ma non scritta da Verdi e che altri celebri soprani del passato solevano non eseguire, in fedeltà alla partitura originale.

Dalle agilità del primo atto, sulle quali qualche ascoltatore intransigente ha ravvisato briciole di quelle che noi giudichiamo come pedanterie d’ascolto (bisognerebbe prima di tutto abbandonarsi totalmente alla musica, lasciandosi trasportare da essa come gesto d’empatia) Netrebko è passata a un secondo atto carico all’inverosimile del lirismo espresso dal bussetano, e trovando in Luca Salsi un interlocutore piuccheperfetto, tarato sulla medesima lunghezza d’onda. Il baritono ha anch’egli innestato una marcia in più rispetto alla sua conclamata eccellenza. Noto per la sua solidità, per non sbagliare un colpo, Salsi in questa occasione ha affinato particolarmente l’aspetto interpretativo, del canto come della recitazione, innestandolo sulla consueta padronanza tecnica e sulla consapevolezza del fraseggio fattosi morbido. Il baritono ha brillato molto di più che non per la sola sontuosità della voce, tra le migliori del gotha internazionale, dando una visione sfaccettata, profondamente umana e profondamente sua, di Papà Germont. Dialogando con Violetta per chiederle di rinunciare all’amore per il figlio Alfredo, Salsi/Germont ha disvelato il carattere del padre, ha aperto alla giovane il proprio animo e le ha lasciato intuire le motivazioni che stavano dietro la cruda richiesta. Parallelamente, egli ha iniziato ad avere precoce sentore delle ragioni del cuore di Violetta, già dall’incontro nel secondo atto. Un dialogo che ha visto i due non solo scoprirsi reciprocamente, ma capirsi e comprendersi, quasi giustificarsi, quasi diventando complici perché accomunati dalla sofferenza che reca seco la decisione assunta. Con ciò, le due star del canto hanno scritto una delle pagine più sublimi che mai abbiamo udito e visto in Traviata.

Nell’ultimo atto, in cui Verdi vira decisamente verso il drammatico, Netrebko ha raggiunto vette interpretative paradisiache: è stata la disperazione del cuore fattasi carne. La forza interiore era ancora presente in Violetta, ma in via di affievolimento come una candela consumata, e il corpo ha mostrato segni di transizione tra il vigore fisico residuo e lo sfinimento della tisi in fase terminale. Qui la voce di Netrebko, che ricordiamo nel primo atto essere risuonata densa e corposa, si è splendidamente assottigliata, si è profusa in pianissimo di trasparenza cristallina, si è fatta sussurro dell’anima, si è tornita di sfumature inedite e infinite nel scandire le frasi e le singole parole. Nella camicia da notte di Violetta – bianca come bianco era il sontuoso abito da festa iniziale, a chiudere il suo personale cerchio espressivo – Netrebko/Valery si è dibattuta tra coraggio e sconforto, tra abbandono e rincuoramento: il suo canto è stato buio e luce, tenebra della morte e rinascita dello spirito. Stratosferica, inimitabile, capace di rendere insufficiente la parola “indimenticabile”. Unica. Come lei, nessuna!

Non allineato sulla medesima frequenza di Netrebko e Salsi, il tenore Freddie De Tommaso, già ascoltato più volte in questa estate areniana. La sua voce è sempre a posto, lo squillo saldo, mai una sbavatura, l’esecuzione corretta e ineccepibile sotto ogni aspetto. Ma indulge troppo allo sfoggio del canto fine a se stesso e la sua presenza, inserita in questo cast, ha stentato a trovare quel fascino seduttivo che ogni tenore dovrebbe avere e comunicare.  

Nei ruoli di fianco, rispetto alla data di luglio qui sopra recensita, abbiamo ritrovato Sofia Koberidze, Flora; Nicolò Ceriani, Barone Douphol; Francesco Cuccia, Giuseppe; Stefano Rinaldi Miliani, Domestico e Commissionario. Invece, in alternanza rispetto al cast precedente, Yao Bohui era Annina; Matteo Mezzaro Gastone; Giorgi Manoshvili, Dottor Grenvil; Jan Antem, Marchese d’Obigny. Il coro, quest’anno preparato da Roberto Gabbiani, si è mostrato in gran spolvero e ha portato a termine una prova particolarmente ben eseguita. Anche i ruoli solistici tra zingarelle e toreri hanno visto due presenze di assoluta eccellenza: i Primi Ballerini del Teatro alla Scala Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko, i quali, come prevedibile, hanno ulteriormente nobilitato le coreografie di Giuseppe Picone incastonando, in questa serata preziosa, il loro gioiellino danzato.

Sul podio è salito Marco Armiliato, che ha diretto curandosi principalmente di supportare al meglio le voci e riprendendole in occasione di qualche attacco lievemente impreciso, ricondotto prontamente e abilmente dal direttore entro i giusti binari. In Armiliato prevalgono il buon gusto e una intelligente visione d’insieme, che egli ha convogliato generosamente nel valorizzare il più possibile le peculiarità dei protagonisti. Ha infatti contribuito in modo sostanziale a far sì che la serata fosse complessivamente raffinata in ogni sua componente, dalla linea stilistica elegante, alla scansione interpretativa musicale attentamente dettagliata.  

L’ultima recita di stagione, che ha concluso il Festival 100 all’Arena di Verona, ha confermato one more time che i cartelloni confezionati dal Direttore Artistico Cecilia Gasdia fin dal suo insediamento, offrono in ogni singola recita un ventaglio di nomi di primissimo piano. Ha confermato che in Arena non esistono primi o secondi cast, serate A o serate B, e che il pubblico può godere delle più fulgide stelle del belcanto dalla prima all’ultima recita. A nostra conoscenza, nessun teatro o festival al mondo riunisce in un’unica stagione così tanti nomi di primissimo piano.

Recensione Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 9 settembre 2023
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona