Uffizi: cresce la collezione con gli autoritratti fotografici di Giuseppe Penone, Ilaria Sagaria e Liu Bolin.

Tre fra le più importanti personalità del panorama artistico attuale, donano al museo fiorentino i loro autoritratti fotografici. Le Gallerie degli Uffizi si preparano ad accogliere le donazioni straordinarie di tre degli artisti contemporanei più influenti al mondo: il poeta dell’Arte Povera Giuseppe Penone, il maestro del camouflage Liu Bolin e la fotografa del femminile Ilaria Sagaria.

Tre diverse tendenze dell’arte contemporanea confluiscono nel museo sotto forma di autoritratti fotografici, ognuno con la propria particolarità: mentre l’opera di Sagaria, una fotografia vera e propria, manipola e distorce l’immagine dell’autrice, quelle di Penone e di Bolin immortalano delle performance artistiche che, nel primo caso, indugiano sulla relazione tra uomo e natura e, nel secondo, esplorano il concetto di individualità.

Le donazioni andranno ad arricchire la vastissima collezione inaugurata da Leopoldo de’ Medici, che ha recentemente trovato spazio nelle nuove sale degli Uffizi.

APPROFONDIMENTO: GLI AUTORITRATTI

GIUSEPPE PENONE
Labbra serrate, fronte corrugata, sopracciglia distese: occhi fissi, penetranti, ma privi di pupille, e anzi, coperti da una coltre che pare d’acciaio. Rovesciare i propri occhi, momento fondamentale del percorso artistico di Giuseppe Penone (Garessio, Piemonte 1947) è un viaggio introspettivo praticato dall’esterno, che separa l’autore dal proprio io e lo connette, allo stesso tempo, con la sua sensibilità di poeta: attraverso un paio di lenti specchianti, l’artista tenta di restituire all’osservatore quello che i suoi occhi assorbono dall’ambiente esterno, compreso il fotografo che lo sta documentando. Le lenti, però, lo rendono cieco, recidendo così il canale tra mente e pupilla, tra uomo e natura: eliminandosi dall’azione visiva, Penone si auto-riconduce a puro corpo, impedendo alla mente di rielaborare ciò che i suoi occhi hanno percepito e trasmettendo dunque una visione inalterata, grezza, pura.

Al tempo stesso, è l’artista che guida e controlla l’intero processo: è lui che decide quando e dove indossare le lenti, come muoversi, gli scatti da selezionare. In questo senso, Penone si cala nel ruolo del veggente: astraendosi momentaneamente dalla realtà, ma tenendone comunque le redini, Penone riesce a penetrare in una dimensione più profonda, non presente, ma passata e futura.

Privandosi volontariamente della vista, Penone raggiunge la purezza sensoriale e si trasforma in medium tra il mondo e l’osservatore. Le lenti diventano una sorgente di immagini primordiali, prive di qualsiasi interferenza, che l’autore trasmette come un oracolo.

ILARIA SAGARIA
Anche Ilaria Sagaria (Palomonte, Salerno, 1989) sceglie di non mostrare i propri occhi. In Dismorfofobia, l’autrice appare distopicamente distorta: il collo è allungato, lo sguardo risucchiato da una modificazione grafica che inghiotte la parte centrale del viso. L’accentuato bianco e nero e la granulosità invasiva della grafica esasperano il tentativo di distorcere la propria immagine; il volto che ne risulta è contraffatto, destabilizzante, e annacqua il confine già offuscato tra reale e digitale.

In ambito psichiatrico, la dismorfofobia è un disturbo ossessivo-compulsivo che ingigantisce la percezione di alcuni tratti del proprio corpo, spesso lievi o inesistenti, generando ansia e disagio; in altri termini, la dismorfofobia è la paura di essere brutti. I social network, regno dell’alterazione, hanno il potenziale di trasformare ogni piccola insicurezza in ossessione: in un’era in cui ogni fotografia viene modellata, manipolata e modificata per risultare più accattivante, Ilaria Sagaria – autrice della mostra ‘Lo sfregio’, esposta agli Uffizi nel 2021 – indaga ancora una volta il rapporto con la propria immagine, e dunque, con la propria identità.

Dismorfofobia nasce dalla necessità di evidenziare gli effetti che la percezione distorta della propria immagine può generare: l’uso incontrollato di filtri per eliminare ogni difetto ci allontana dalla nostra realtà, dalla verità di noi stessi. Il rischio è quello di venire trascinati nel vortice che ha inglobato gli occhi della protagonista dell’autoscatto, di non riconoscersi al punto tale da non volersi più guardare.

LIU BOLIN
Se Ilaria Sagaria altera la percezione di sé stessa, Liu Bolin (Shandong, Cina, 1973) cancella totalmente la propria: attraverso una sintesi di pittura, fotografia e performance, le opere del “camaleonte” dell’arte contemporanea sfidano la percezione visiva stessa, confondendo la mente dell’osservatore e stregandone lo sguardo.

Dopo essersi mimetizzato con lo sfondo circostante grazie ad un meticoloso processo di body painting totale, Liu Bolin, restando immobile come una scultura vivente, si fa fotografare in luoghi iconici, emblematici e persino disturbanti, dissolvendosi nell’opera stessa e dando insieme corpo al significato dell’ambiente raffigurato.

Nell’indagare la categoria ‘museo’, l’artista non poteva che rivolgersi alle Gallerie degli Uffizi: per il progetto Hiding in Florence, Liu Bolin ha rinunciato alla sua identità per abbracciare quella di un visitatore qualsiasi, scegliendo di scomparire nella Sala della Niobe, di confondersi tra le sculture della Sala di Venere nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti e di diventare parte della Sala Bianca. Nel tentativo di identificarsi con il pubblico, l’”uomo invisibile” ha, inevitabilmente, trovato una linea diretta che lo riunisse ai grandi maestri del Cinquecento.

C.S.m.
Ufficio Stampa, 28 agosto 2023
Testo e immagine: Gallerie degli Uffizi
Nell’immagine, a fianco delle opere, il direttore Schmidt, Sagaria, Bolin

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