Festival Verdi: 30 e lode alla versione da camera ‘site-specific’. Riduzione del ‘braveheart’ Alessandro Palumbo sul podio; regia Manuel Renga.

Il Teatro Verdi di Busseto è una meraviglia salvaguardata nella sua integrità ottocentesca, negli arredi della sala e nelle stanze del ridotto. Tuttavia le minuscole dimensioni di questo gioiellino condizionano le messe in scena. Positivamente, se affrontate con intelligenza come nel presente caso, perché la ricerca espressiva viene tarata sulla snellezza, su un minimalismo che spesso risulta maggiormente efficace rispetto alla ridondanza di elementi. Ciò che ha soprattutto stupito in questo Falstaff è stato il risultato qualitativo ottimale raggiunto anche sotto il profilo musicale, che è l’aspetto maggiormente condizionato dagli spazi angusti. La formula di “spettacolo site-specific” era già stata felicemente sperimentata lo scorso anno per Rigoletto e quello che allora si preannunciava come un azzardo impossibile da superare si era rivelato un successo. Un risultato portentoso replicato quest’anno dal medesimo illuminato team creativo, sempre nell’ambito del Festival Verdi al Teatro Regio di Parma.

Donando momenti di pura gioia e divertimento ai 300 spettatori che costituiscono la capienza massima del teatro (moltiplicati per quattro recite) è andato in scena “Falstaff. Tutto nel mondo è burla”. L’aggiunta nel titolo dell’incipit della fuga finale dell’opera ha messo subito in chiaro che si trattava di una versione “altra”: una riduzione cameristica, sia pure integrale.

L’opera tratta da Le allegre comari di Windsor di Shakespeare fu composta da Giuseppe Verdi quasi ottantenne, con la “complicità” del librettista Arrigo Boito che aveva appoggiato la voglia del Maestro di dedicarsi al genere buffo. Le cronache dell’epoca riportano che alla prima, il 9 febbraio 1893 al Teatro alla Scala di Milano con la direzione di Edoardo Mascheroni, fossero presenti in sala Giacomo Puccini, Pietro Mascagni, Giuseppe Giacosa, Giosuè Carducci, Letizia Bonaparte, il ministro Ferdinando Martini e lo stesso Verdi, chiamato dagli applausi alla ribalta infinite volte dopo ogni atto. Ci troviamo quindi dinanzi a un capolavoro assoluto, apparentemente impossibile da rimaneggiare con rispetto e con esiti degni di nota. Invece l’impresa si è compiuta.

Manuel Renga ha firmato la regia del nuovo allestimento. Togliamoci subito il solo e unico sassolino dalla scarpa: la scena iniziale della minzione in un catino, vista e rivista da decenni negli spettacoli più disparati, tanto da aver perso ogni forza spiazzante o comica. Superati questi pochi secondi, Renga si è mosso egregiamente e sagacemente per sfruttare al meglio i limitati spazi del palcoscenico, riuscendo a restituire appieno quell’atmosfera in bilico tra ironia e mestizia che caratterizza la figura del Sir inglese del XV secolo, panciuto, bevitore accanito, ormai vecchio e un po’ in disarmo, tanto da cadere vittima della burla architettata dalle donne.

Avvalendosi di tavoli e panche che hanno dato modo di scomporre l’azione su più piani (movimenti scenici di Giorgio Azzone) il regista è riuscito a mantenere sempre vivace il ritmo, curando un’attorialità briosa che ha contagiato il pubblico. L’asciuttezza della scena, ideata da Aurelio Colombo come i costumi, curati in ogni dettaglio, che hanno trasportato l’epoca nel 1940-50, è risultata funzionale a delineare efficacemente il mondo di Falstaff: l’osteria, l’aristocratica dimora o il bosco incantato, rappresentato spiritosamente da un quadro appeso alla parete, dove il magico e onirico mondo shakespeariano è stato figurato mediante lampadari e abat-jour le cui lucine hanno costellato la penombra (luci Giorgio Morelli).

Renga ha inoltre abilmente ricavato un’appendice extra protesa in avanti a lato del boccascena e comprendente un palco di barcaccia, dove i protagonisti hanno trovato una dimensione intima, dove hanno potuto compiere riflessioni e abbandonarsi a confessioni coinvolgendo direttamente gli spettatori, che si trovavano a distanza di un palmo.

Falstaff vive una vita divertita e spensierata ma dal retrogusto amaro. Nel personaggio si ritrova molto del Verdi ottantenne, che si pone i quesiti cardine dell’esistenza. Il mondo di Falstaff si sta disgregando, soppiantato dal nuovo che avanza, e al vecchio Sir John rimangono solo un boccale di dolce nettare consolatorio e una sedia a dondolo dove cullare i propri pensieri. Tuttavia egli non vuole perdere l’occasione per farsi un’ultima risata, per tracannare un’altra pinta, per compiere l’ennesima impresa buffonesca. Riuscitissima, quindi la regia.

Ma il miracolo strabiliante è avvenuto in buca. Facciamo nuovamente un passo indietro. Il petit, mignon, extra small, bonsai Teatro di Busseto, ricavato al primo piano della Rocca Pallavicino, aveva riscosso dissensi da Verdi che, nonostante avesse donato la somma allora stratosferica di 10 mila lire per finanziare i lavori, e nonostante avesse poi acquisito la proprietà di un palco, si rifiutò sempre di metterci piede disertando perfino le serate inaugurali dove andarono in scena due sue opere.

Fatto sta che in un teatro in cui Verdi stesso non credeva si potesse rappresentare Verdi, nel nuovo Millennio il Maestro è stato degnamente eseguito in una riduzione per ensemble dalla stupefacente veridicità, dalla fedeltà che ha dell’incredibile perché spesso, dalla platea, ci si è addirittura dimenticati delle carenze numeriche nel drappello orchestrale. Così come nel nuovo arrangiamento si è ritrovata, nella sua integrità, la capacità di Verdi di scolpire la singola nota rendendola significativa, funzionale, indispensabile. Similmente, del Verdi originale si sono ravvisati gli stessi timbri e i medesimi colori.

A compiere l’impresa ardita e prodigiosa di riscrivere la partitura adattandola a un organico da camera, dai volumi tarati ad hoc sull’acustica del luogo, è stato il “braveheart” Alessandro Palumbo, sul podio del Quintetto d’Archi Kyiv Virtuosi e del piccolo Ensemble di fiati La Toscanini, rinforzati dall’apporto timbrico di un pianoforte (certo, non a coda) suonato da Gianluca Ascheri. Il direttore e concertatore ha saputo trarre il meglio sia dalla buca sia dal palco, dove i cantanti sono stati indotti dalla distanza ravvicinata a instaurare un dialogo a tu per tu con ogni singolo spettatore. Ne è scaturito un suono non solo ottimamente dosato, con tutti i dovuti sfoggi dinamici e una efficace ricerca coloristica, ma perfino in grado di mettere in risalto talune raffinatezze verdiane, talune sfumature, talune preziosità. Chapeau!

Prevalentemente giovane il cast, che ha annoverato molti ex allievi delle passate edizioni dell’Accademia Verdiana. Tra i solisti, sono state anche redistribuite le parti del Coro.

Nel ruolo del protagonista per un’unica data era Elia Fabbian che ha saputo trovare il giusto compromesso tra lo spirito da buontempone e l’indole malinconica di Falstaff, tra la sua voglia di divertirsi, resa dal baritono senza cadute in facili eccessi buffoneschi, e la presa di coscienza di una vita ormai depredata dal tempo. Concretezza attoriale andata di pari passo alla solidità vocale, caratterizzata dal timbro di un bel colore bronzeo/dorato e condotta dai registri gravi verso l’alto con omogeneità e cura per il fraseggio.    

Una nota a parte merita la validissima compagine femminile, che per esigenze di spartito oltre che sceniche richiede interpreti affiatate tra loro, dall’attorialità vivace e spumeggiante, capaci sulla scena di fare squadra nel gabbare Falstaff. Ma anche voci timbricamente differenziate e in grado di cantare in minuziosa sinergia. Così è stato.

Il soprano Ilaria Alida Quilico ha controbilanciato la ferrea fermezza di Mrs. Alice Ford con l’innata musicalità e con la voce chiara in tutta l’estensione fattasi rilucente nei registri alti. Luminosi erano anche gli acuti, guarniti da “filati” delicati, del soprano Veronica Marini, aggraziata e fresca Nannetta figlia di Alice, dolce e innamorata. Timbro più scuro, pastoso e avvolgente, per il mezzosoprano Adriana Di Paola che, avvalendosi della spiccata personalità e del fraseggio attentamente indirizzato allo scopo, ha delineato spiritosamente e senza eccessi Mrs. Quickly. Sprizzava fascino da tutti i pori la Mrs. Meg Page di Shakèd Bar, mezzosoprano dal timbro brillante e smaltato. 

Anche gli interpreti maschili hanno dimostrato una notevole dose di affiatamento. Il tenore Vasyl Solodkyy possiede voce brunita e importante, pronta per ruoli più corposi, e ha donato a Fenton l’appropriato animo delicato da innamorato. Il baritono Andrea Borghini era lo scorbutico e geloso Ford, marito di Alice, dai mezzi omogenei, ben proiettati e altrettanto ben poggiati. Interagente e completamente a fuoco il duo di seguaci di Falstaff, Bardolfo e Pistola, rispettivamente i tenori Roberto Covatta e Andrea Pellegrini, il primo dalla voce chiara, il secondo dall’emissione solida, entrambi impegnati in siparietti comici estremamente godibili. Il bravo tenore Gregory Bonfatti ha dato vita all’invadente Dott. Cajus.

Tirando le somme, va sottolineato che la pratica della riscrittura del dettato musicale affonda radici antiche, ai bei tempi in cui l’opera era pop (ossia popolare) e veniva cantata ovunque e divulgata con ogni mezzo, pertanto le riduzioni erano all’ordine del giorno. È quindi affascinante e significativo che questa tradizione torni oggigiorno in auge, purché ovviamente sia realizzata mantenendo fede agli alti standard qualitativi che rendono il Festival Verdi un punto di riferimento a livello globale. Ci auguriamo che tale impresa vittoriosa si possa ripetere per nuovi titoli e che la produzione di quest’anno come quella passata possano essere riprese in futuro.

 Infine, un’ultima notizia positiva. Abbiamo per la prima volta sperimentato il servizio di bus navetta che conduce dal Teatro Regio di Parma fino al Teatro Verdi di Busseto e ritorno. Comodo, confortevole, a prezzo contenuto equivalente a quello che si spenderebbe in benzina, impedisce il depistaggio da parte di quei sadici apparecchietti utopisticamente chiamati navigatori: il nostro trova divertente farci perdere ogni volta nei viottoli delle ubertose campagne parmensi. Invece di cedere agli istinti omicidi e cercare di affogare il grillo parlante high-tech nel boccale di vino di Falstaff, ci siamo accomodati nel bus e goduti il breve viaggio in totale relax, accompagnati solo dalla delizia della musica.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Verdi di Busseto – Festival Verdi, il 14 ottobre 2023
Foto: Roberto Ricci