Franco Branciaroli, con la regia di Piero Maccarinelli, porta in scena la vera tragica storia di un anziano ebreo e di una giovane ariana.

Ci sono spettacoli nei quali i contenuti assumono un valore assoluto. Ma non ci si deve lasciar trarre in inganno: la qualità artistica è imprescindibile per veicolare efficacemente un messaggio, è conditio sine qua non perché la memoria si rinnovi con forza in ogni singolo spettatore mentre è a teatro, e gli scavi qualcosa dentro che non lo abbandonerà più, anche dopo spenti i riflettori di scena, anche una volta tornato a casa.

Felice compresenza di contenuti e di un valore artistico già garantito dai nomi in locandina, è stato “Il caso Kaufmann” nella coproduzione di Centro Teatrale Bresciano, Teatro Stabile di Torino, Teatro Stabile di Verona, Il Parioli. Lo spettacolo ha riscosso successo fin dal suo debutto e la prima recita romana ha visto presenze illustri tra il pubblico, tra cui il Presidente della Repubblica Mattarella (vedi notizia DeArtes qui).

La domanda, prima di recarci in sala, nel nostro caso a Verona dove il titolo ha inaugurato la Stagione “Il Grande Teatro” al Teatro Nuovo, era se dopo tanti anni di rievocazioni si potesse ancora dire qualcosa di nuovo e di efficace sulle atrocità perpetrate dai nazisti verso gli ebrei prima e durante la seconda guerra mondiale. Tristemente sì, perché quell’orrore non ha avuto limiti ed è dilagato in una moltitudine di declinazioni ancor oggi poco nota. Uno dei meriti di questo spettacolo è stato di ampliare la conoscenza sul reato di “inquinamento razziale”, subdolo per il suo insinuarsi a poco a poco nella normalità della vita quotidiana, lasciando sconcertate e incredule le vittime di allora come il pubblico di oggi.

È stato portato sul palcoscenico il libro scritto nel 1999 da Giovanni Grasso, che per la sua opera letteraria ha meritato numerosi riconoscimenti. Grasso, giornalista “di casa” al Quirinale, si è rivelato anche un ottimo romanziere, attento alla verità storica quanto sensibile nella penna. Egli stesso ha curato questa trasposizione teatrale, che del romanzo ha mantenuto lo stile narrativo.

Si è ripercorsa la storia vera di Leo Katzenberger (cognome che nel libro e nella piéce è diventato Kaufmann) e Irene Seidel. È il 1941, siamo a Monaco di Baviera in una cella di massima sicurezza del carcere di Stadelheim. L’indomani sarà eseguita la condanna a morte dell’imputato. La pena capitale è stata decisa dal Tribunale Speciale di Norimberga in violazione delle Leggi dell’Onore e del Sangue emanate nel 1935.

Nonostante le sue ripetute asserzioni di innocenza, il commerciante ed ex presidente della comunità ebraica di Norimberga è stato ritenuto colpevole d’aver tessuto una relazione con la giovane donna ariana, figlia del suo migliore amico, che l’aveva posta sotto la sua tutela quando ella si era recata in città per seguire un corso di fotografia. L’anziano uomo, vedovo, aveva sì provato un sentimento nei confronti della ragazza e una pulsione sempre però repressa, mantenuta entro i limiti di una affettuosa innocente amicizia. L’autore quindi ha intrecciato abilmente due fulcri narrativi: le leggi razziali e l’amore negato. Proibito non solo dalle diverse etnie ma anche dalla differenza di età tra i due. Amore vietato dal nazismo e condannato dal giudizio della gente.

Un testo quindi impegnativo che ha trovato degna declinazione scenica grazie a un cast di altissimo livello. A firmare la regia con mano esperta era Piero Maccarinelli. La scena (Domenico Franchi) era divisa in due. Da una parte la cella con le sbarre che imprigionavano Lehman Kaufmann,dall’altra lo spazio della mente, nondimeno reale, in cui hanno preso vita i suoi ricordi. La sera prima di essere messo a morte, il recluso ha fatto chiamare un sacerdote dalla guardia carceraria Hans Groß, Andrea Bonella, dicendogli che intendeva convertirsi. Non era così. L’escamotage nascondeva l’intento di far arrivare un suo ultimo messaggio a Irene Seidel, incarcerata per quattro anni perché accusata d’aver reso falsa testimonianza nel tentativo di scagionare l’amico. A dare volto e a incarnare efficacemente i tanti sentimenti che hanno attraversato il cuore della giovane, schietta e indipendente, è stata Viola Graziosi.  

A confortare il condannato è giunto Padre Höfer, Graziano Piazza, che ha avuto il compito di incarnare quella parte di spiritualità sincera che si fa forza dei propri dogmi ma ammette con lucidità le proprie sconfitte. Tra il commerciante ebreo e il prete cattolico è così sgorgato un flusso di pensieri e riflessioni fattosi presto confidenziale, in un’atmosfera tagliente e cruda (musiche Antono di Pofi).

Dal colloquio tra i due, e dalle evocazioni, si è appreso che l’amicizia tra l’anziano ebreo e la giovane ariana aveva generato un clima di odio e sospetto tra i conoscenti e gli abitanti del quartiere (costumi Gianluca Sbicca). Tutte persone brave e rette, a iniziare dalla ex governante di casa Kaufmann, Eva Greese interpretata da Franca Penone, la quale ha sostenuto con spietato cinismo che le leggi non le aveva scritte lei e le aveva solo rispettate. E che se a denunciare non fosse stata lei lo avrebbe fatto qualcun altro. Coscienza a posto, dunque, senza rimorsi o pentimenti.

Il regista Maccarinelli e prima di lui l’autore Grasso hanno identificato il susseguirsi di episodi apparentemente di piccola entità come concausa dell’escalation del razzismo. Hanno stigmatizzato il tenace chiudere gli occhi sui torti subiti dagli altri, che perciò si sono ingigantiti fino a sfuggire a ogni assennatezza. La quotidianità dei cittadini ciecamente ligi alle regole sfocerà di lì a poco nella Shoah, nel Male assoluto.

Il regista ha puntato il dito sull’inconsistenza su cui si basava il castello di accuse contro Kaufmann, sugli indizi immaginati dai delatori della porta accanto; ha mostrato come il Male si sia insinuato strisciante nella comunità. La potenza della calunnia. Quella stessa che da “venticello” arriva a tuonare come un “colpo di cannone” musicata da Rossini nel suo Barbiere, e che possiede, nell’opera buffa come nel romanzo drammatico, una potenza deflagrante, subdola e manipolatrice. Le parole possono assumere diversi significati in base al contesto in cui vengono inserite. È stato lo sparlare del quartiere ad aver condannato a morte l’ebreo prima ancora del Tribunale Speciale, rappresentato dal Presidente Oskar Rothenberger, Piergiorgio Fasolo e dal suo assistente Herbert Alessandro Albertin.  

Franco Branciaroli ha fornito una prova superba, sfoggiando quell’arte recitativa che gli conosciamo da sempre. Passando dall’interno all’esterno della gabbia di detenzione, ossia dall’ambito dei ricordi alla materializzazione degli stessi, e mantenendo come filo conduttore l’indole dolce e la serena rassegnazione di Kaufmann, l’attore ha magistralmente cambiato postura e mutato voce non solo dal punto di vista espressivo ma anche timbrico. Ha adeguato di volta in volta l’impostazione, spostato l’appoggio della voce dal diaframma ai registri di testa, ha giostrato sulle dinamiche e sui volumi. Forse, con eccessiva indulgenza ai toni studiatamente enfatici, che si sono discostati da quella ricerca di realtà perseguita dall’autore e dal regista. L’intenzione presumibilmente era quella di proiettare il personaggio in un ambito eroico. Tuttavia l’eroicità di Kaufmann sta nella sua normalità, nel suo essere un uomo comune trovatosi suo malgrado a far parte di una terribile pagina di Storia. E questa è stata la forza del testo scritto da Grasso.

La narrazione che ha preso vita sul lato del palcoscenico opposto alla cella ha suggerito una prospettiva speculare tra i ricordi e il vissuto, e ha instaurato un parallelo temporale tra passato e presente. Tale scelta registica ha avuto molteplici pregi: ha movimentato il ritmo narrativo, non ha mai fatto cadere la tensione drammatica e soprattutto ha dato un valore di hic et nunc ai personaggi.

La scena era scarsamente illuminata (sapienti le luci di Cesare Agoni): il lato della prigione era tetro però solcato da una lama di luce indirizzata sul protagonista, mentre la zona in cui sono materializzate la stanza della casa, le strade cittadine e l’aula di tribunale, ha assunto i toni seppiati ma non sbiaditi del ricordo.
Il buio era quello della Storia, come ci confermano gli attuali fatti di cronaca. La notte che ha avvolto il condannato Kaufmann dura da duemila anni. È la notte dell’Umanità per la quale domani non sorgerà l’alba.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto a Verona, al Teatro Nuovo – Stagione Il Grande Teatro, il 10 novembre 2023
Foto © Umberto Favretto

Lascia un commento