Deliziosa produzione dell’opera di Ermanno Wolf-Ferrari, in scena al Teatro Filarmonico di Verona.

Delizioso sotto ogni punto di vista. “Il campiello” era ambientato in un … campiello, con godibile descrittività. Il regista Federico Bertolani, infatti, ha intelligentemente intuito che, in quest’opera, protagonisti non sono i personaggi in carne e ossa ma altri due soggetti: la città, con le sue case e i suoi usi, e il tempo, fermatosi nella piazzetta ma che continua a scorrere sullo sfondo di questo microcosmo. Una scalinata porta verso ponti e calli che rimangono celati dietro l’angolo: altri mondi vicini eppure lontani (scene di Giulio Magnetto, luci di Claudio Schmid). In questa Venezia il mare non si vede ma si intuisce; le case sono addossate le une alle altre così come le voci degli abitanti che si sovrappongono dai balconi, nell’accavallarsi di sospiri languidi e baruffe.

Il regista ha scelto una narrazione essenziale, di studiata ingenuità che non equivale a banalità bensì a chiarezza espositiva: ha proiettato il luogo in topos. Decisione particolarmente azzeccata nel caso del poco rappresentato “Il campiello” composto da Ermanno Wolf-Ferrari e che debuttò alla Scala nel 1936. Una “commedia lirica” che il librettista Mario Ghisalberti ha attinto a Goldoni: cantata prevalentemente in dialetto veneziano, presenta due personaggi napoletani, in un miscuglio di cadenze linguistiche che risulta anch’esso spassoso. Con il nuovo allestimento di questo titolo, alla sua prima rappresentazione a Verona in tempi moderni, Fondazione Arena ha proseguito nell’intento, di successo, di dedicare le stagioni invernali al Teatro Filarmonico a titoli fuori dal repertorio “di massa” e che proprio per questo attirano un pubblico attento e curioso.

Tra ingenui intrecci amorosi, divertenti battibecchi, siparietti scanzonati e colpi di scena soft – un groviglio in cui gli spettatori sono stati aiutati a districarsi dai costumi (Manuel Pedretti) aventi i colori abbinati madre/figlia – il regista Bertolani, sempre con leggerezza misura e buon gusto, ha suggerito come si diceva la convivenza tra un tempo immobile e un tempo in scorrimento. E ha affidato il parallelismo alle controscene (un applauso ai mimi) che se nella prima parte sono state assai scarse proprio per sottolineare la sospensione temporale, hanno a mano a mano assunto frequenza e consistenza. Alle spalle della fissità settecentesca del campiello, si sono visti, in sequenza, le classiche maschere carnascialesche (ma anche della Commedia dell’Arte), una gondola, un vessillo della Serenissima con il Leone di San Marco, un vaporetto ottocentesco e un richiamo al Ventennio fascista (periodo in cui fu scritta quest’opera).

Per poi giungere ai giorni nostri, allorquando gli abitanti della Venezia del ‘700 hanno messo i sacchetti di sabbia e le paratie alle porte per ripararsi dall’acqua alta, mentre un capocantiere in giubbotto fluorescente sovrintendeva all’alzarsi delle barriere del Mose. La scena conclusiva, in cui Gasparina saluta la città perché in procinto di partire assieme allo sposo napoletano, un transatlantico è apparso a lambire le case, riproponendo le immagini di cronaca odierna che mostrano la fragilità della città insidiata dal progresso tecnologico incontrollato. Dalla mega nave è scesa una folla di turisti con trolley e cellulari, bulimici di selfie, che hanno invaso il campiello. Addio Venezia, o, come canta nostalgicamente Gasparina, “Bondì, Venezia cara”.

Ottima e bene assortita la compagnia di canto. Certo, la situazione era analoga a quella che si verifica nel Goldoni inscenato in prosa: la madrelingua veneta sarebbe sostanziale, tuttavia il cast si è onorevolmente destreggiato con l’idioma lagunare, valorizzandone gli accenti giocosi, così come anche le spiritose incomprensioni linguistiche tra veneti e partenopei. Tutti gli interpreti, indistintamente, sono riusciti a caratterizzare i rispettivi personaggi con contorni ben definiti, con ironia priva di eccessi macchiettistici.  

È fatto obbligo, per meriti artistici e per aver sprigionato una simpatia contagiosa, menzionare innanzitutto i due tenori en travesti nei panni delle “vecie”: Dona Cate, Leonardo Cortellazzi e la dura d’orecchi Dona Pasqua Saverio Fiore. Voci di prim’ordine attentamente calibrate per l’occasione, irresistibilmente esilaranti nelle accentuazioni comiche non parodistiche, hanno dato credibilità alle figure materne pur scatenando risate continue tra il pubblico in sala. A completare il trio delle madri, il mezzosoprano Paola Gardina, destreggiatasi con perizia nel ruolo dell’irruenta “fritolera” Orsola.

Tre, le “pute”, i soprani. L’intraprendente Gasparina, civettuola destinata a convolare a nozze col cavaliere campano, era Bianca Tognocchi, dai mezzi vocali notevolissimi accompagnati da uno spiccato lirismo, emerso soprattutto nello struggente poetico addio a Venezia sopramenzionato. Lucieta, “fia de dona” Cate, lamentosa e volitiva col fidanzato Anzoleto, era Sara Cortolezzis, che ha infilato una bella serie di acuti limpidi e ben sostenuti. La timida Gnese, “fia de dona” Pasqua e fidanzata di Zorzeto, ha beneficiato della tecnica di canto, agevolmente padroneggiata anche nelle mezze voci, di Lara Lagni. 

Nei ruoli maschili abbiamo trovato il Cavalier Astolfi gentiluomo napoletano decaduto che si fa strada nel cuore di Gasparina, Biagio Pizzuti: voce baritonale da fuoriclasse, affascinante, ottimamente timbrata, stilisticamente curata in ogni registro, dal fraseggio magistrale e dalla dizione cristallina, oltre alla cura per il physique du rôle. Nulla meno che perfetto.

Fabrizio dei Ritorti, burbero zio di Gasparina e anch’egli d’origine napoletana, era Guido Loconsolo, la cui voce di basso ha tuonato piena e corposa. Gabriele Sagona era Anzoleto, “marzer” iroso e lunatico, mentre invece Zorzeto, “fio” de Orsola, il tenore Matteo Roma, ha mostrato un carattere dolce e amorevole. Pur nel suo minuscolo intervento, bene il coro diretto da Roberto Gabbiani.

Sul podio, veronese d’adozione ma veneziano di nascita e per formazione, Francesco Ommassini si è mosso come meglio non sarebbe stato possibile, approcciando con onestà la creazione autorale, tanto facile all’ascolto quanto complessa nell’accavallarsi di spunti e nei molteplici cambi di atmosfere. Il declamato si è integrato al tessuto musicale amplificandone i colori, la cui fantasmagoria il direttore ha improntato alla chiarezza oltre che alla leggerezza. In ciò trovando adeguato riscontro nell’Orchestra dell’Arena di Verona, in una esecuzione di squisita fattura. Accomunati quindi dalla levità, gli incisi strumentali sono stati briosamente fulminanti, le aperture melodiche soavi e delicate, il “ciarlare” ritmico spiritoso e dinamicamente vivace, le schermaglie amorose esuberanti. Ommassini ha perfettamente compreso che per rendere giustizia alla partitura, formata da sezioni singole e ben distinte, bisognasse considerarla nel suo insieme, avvalendosi dei molti refrain come pennellate su un’unica tela. Un risultato eccellente e poetico, in cui la spensieratezza ha saputo venarsi di una malinconia dolce e carezzevole.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 20 marzo 2024
Foto Ennevi