Una chiacchierata telefonica con Anna Malavasi, voce acclamata nel panorama lirico contemporaneo. Una carriera svolta sempre al top, sui palcoscenici più prestigiosi e sotto la guida di registi e direttori tra i più importanti.
Di lunga data, la collaborazione con il Maestro Riccardo Muti.

Signora Malavasi, il suo percorso artistico, fin dagli anni di studio, l’ha subito proiettata verso orizzonti vasti.
Una scelta meditata, o una casualità del destino?
Sono di origini mantovane però abito a Rimini da una vita. Le molte città dove ho studiato derivano dal fatto che ho due diplomi. Quando ho cominciato ad applicarmi al canto, ero già all’ottavo anno di pianoforte. Io reputo che il mio studio sia avvenuto a Pesaro. È questo conservatorio che mi ha dato i natali e il Rossini Opera Festival mi ha dato subito delle risorse. I miei esordi sono stati al ROF, con un repertorio che poi ho abbandonato perché Rossini non era assolutamente per la mia voce, nonostante io lo adori. Mi piace da impazzire, ma non è nelle mie corde. Però i primi anni, quando c’era ancora il mitico Maestro Alberto Zedda, facevo Rossini. E ho iniziato a lavorare da subito, lì e in altri teatri. Non so se fossi pronta, però la voce era importante, una voce scura. Agli esordi cantavo da soprano drammatico e qualche anno sono passata a ciò che era più adatto alla mia voce naturale: il repertorio da mezzosoprano lirico e anche drammatico.

Poi masterclass con la Freni, la Scotto, Matteuzzi.
Cosa ha imparato da questi miti?
Io dico sempre che ho rubato da tutti. Ho avuto la fortuna non solo di fare queste masterclass, ma quando ho iniziato a lavorare sono stata vicino a grandissimi cantanti. Li guardavo con ammirazione e cercavo di carpire a loro dei segreti, ascoltandoli, vedendoli. Anche con Fiorenza Cedolins, con la quale ho studiato ai miei esordi. Grazie a lei ho iniziato una bella carriera che mi ha portato a cantare a fianco di interpreti di spicco. Non ho avuto sempre lo stesso insegnante e ho iniziato la carriera veramente presto, poco più che diciottenne.

Oltre alla tecnica o dell’espressività, da loro ha appreso anche il “mestiere”?
L’approccio professionale, che non so se sia dato adesso, mi è venuto da Robleto Merolla che, al conservatorio di Pesaro, insegnava come stare sul palcoscenico da veri cantanti. Perché i docenti che sono stati a loro volta dei grandi cantanti come è stato Merolla, o che comunque hanno lavorato tanto, questo lo sanno dare. Invece quelli che non sono stati sul palcoscenico, o che ci sono stati poco, penso che non riescano a insegnare la professionalità, la rigidità e la disciplina che servono sul lavoro. Al Rof, quando ho fatto l’accademia, Zedda ha messo dei bei paletti per poter comprendere come ci si dovesse comportare in teatro. È un aspetto molto importante che non sempre viene detto. La mia è una affermazione un po’ polemica, però è quello che penso.

Non è polemica, è la verità. È una caratteristica indispensabile, che fa la differenza tra chi viene fuori e chi si perde per strada …
Si, perché poi quando ti trovi a lavorare con dei direttori d’orchestra come Riccardo Muti, come Zubin Metha, come tutti i grandi nomi, se non hai questa disciplina non sei all’altezza, anche se hai una voce importante. Ci vogliono tante doti per riuscire a emergere, in mezzo a tutti quelli che ci provano. Io parlo dell’inizio; magari viene sottovalutato invece è basilare. La puntualità, il modo di stare in palcoscenico, non distrarsi… ai nostri tempi con telefonini vari … è una cosa che ogni tanto accade alle prove. Invece bisognerebbe essere ligi.

Ha citato Zubin Metha, ma ha lavorato anche con Daniele Gatti, Michele Mariotti, Daniel Oren. E poi Riccardo Muti, con il quale c’è stato un feeling particolare, una collaborazione continuativa…
Sì, di tanti anni, perché con il Maestro Muti lavoro dal 2008. Ho lavorato davvero tanto, sia con lui che con la moglie Cristina Mazzavillani. Abbiamo fatto diverse produzioni che mi hanno portato in America, a Chicago; poi siamo stati al Festival di Salisburgo, Falstaff a Oviedo e a Savonlinna, abbiamo percorso mezzo mondo. E con la signora Muti, grazie alle sue regie, ho girato molto in Italia come Azucena, e anche con Falstaff in collaborazione col Maestro che ha circuitato tantissimo. È stata una collaborazione che mi ha arricchito. Quando si lavora col Maestro Muti viene fuori un’altra cantante che è in te, perché lui ha delle esigenze che gli altri Maestri non hanno. Ma poi riscuoti anche il rispetto degli altri direttori d’orchestra e soprattutto acquisisci un modo di leggere la musica e vedere lo spartito totalmente diverso dall’usuale. Perché c’è la volontà di fare proprio quello che voleva veramente l’autore, che con il Maestro viene fuori. Diciamo che dal 2008, con gli anni, questo aspetto si è innestato nel mio essere cantante.

Parlando di registi, ha lavorato anche con nomi a cavallo tra i generi, da Gigi Proietti o Dario Fo. Cosa le è rimasto di queste esperienze a confini allargati?
Pure con Sofia Coppola o Franco Zeffirelli, che sono anche legati al cinema. Sono state esperienze ulteriori perché spesso loro cercano in te l’esigenza del cantante, che è completamente diversa da un attore. A volte si fanno dei movimenti che aiutano più il canto che l’interpretazione a livello attoriale. Pochi giorni fa la Rai ha trasmesso La traviata che ho fatto a Roma con Sofia Coppola come regista: è stata una bellissima circostanza, una produzione straordinaria sia per i costumi di Valentino che per la scenografia. Mi è successo altre volte, spesso all’Opera di Roma, di trovarmi con registi che vengono dal cinema e sono esperienze sempre interessanti, che impreziosiscono. È uno scambio: loro cercano da te “aiuto”, tu cerchi di fargli capire e ci si viene incontro.

Accennava al diploma in pianoforte (con il massimo dei voti). La conoscenza di uno strumento influisce nel canto, su quella che viene definita musicalità?
Mamma mia, si, si! L’essere musicista non sa quanto sia apprezzato dai direttori d’orchestra. Perché purtroppo il solfeggio sarebbe alla base del canto, solo che non sempre viene studiato bene, oppure non sempre i cantanti arrivano dal conservatorio o da posti dove viene loro insegnato. Essere anche pianista è un po’ come essere maestro collaboratore di se stesso. Nel mio caso, diciamo che mi sono autogestita. È stato di vitale importanza. Il problema è che ho svolto gli ultimi anni di pianoforte quando stavo già iniziando la carriera come cantante, e quindi è stato molto difficoltoso riuscire ad arrivare al diploma. Però ce l’ho fatta, ne sono felicissima e mi ha aiutato tantissimo nella carriera, anche ad essere per l’appunto apprezzata da grandi direttori d’orchestra che oltre alla voce trovavano un’efficienza musicale superiore a un cantante “solo cantante”.

Voce, la sua, con una grande estensione che le permette di sostenere ruoli molto diversi tra loro, da Carmen a Suzuki, da Azucena a Fenena…
Ci sono ruoli in cui sono mi sono specializzata e i teatri mi chiamano per quelli. Ho fatto tantissime recite come Fenena. L’ho debuttata grazie al Maestro Muti all’Opera di Roma per i 150 anni dell’Unità d’Italia e da lì è nato un susseguirsi di Fenene con “miliardi” di regie (n.d.r. ride). L’ho cantata all’Arena di Verona, al Regio di Parma e in tanti teatri ed è sempre stata una bellissima esperienza. Sui altri ruoli come Suzuki o Maddalena c’è spesso il mio nome perché ormai sono diventata specialista. Ho fatto tantissime volte Carmen, Azucena con cui ho girato tutto l’Italia. L’ho debuttata con la regia della signora Muti e abbiamo fatto diverse tournée anche all’estero come in Oman; poi l’ho cantata a Palermo, Bologna, sempre in grandi teatri. Stessa cosa per Carmen.

Un discorso speciale merita Suzuki…
Butterfly è una delle mie opere preferite, se non la mia preferita. Ho un amore per Puccini viscerale. Invece come dicevo prima Rossini l’ho frequentato a inizio di carriera però poi non ha avuto uno sbocco. Poi soprattutto ruoli verdiani. Ho avuto la fortuna di cantare in Edgar di Puccini, un’opera che non viene quasi mai fatta interamente in quattro atti: Tigrana è un ruolo da mezzosoprano acuto, che possono fare voci con una grande estensione. Anche se crescendo, con l’età, la mia voce tende a scendere, ad avere un colore tra il mezzosoprano e il contralto piuttosto che andare verso la vocalità sopranile. Ci sono ruoli che possono essere definiti “di fianco” e altri principali. Butterfly è la mia opera preferita. Ho avuto la fortuna, l’ultima volta, di farla con la regia di Ferzan Özpetek al San Carlo di Napoli, ed è un ruolo che mi sento veramente nel sangue. Per la musica di Puccini ho un amore particolare…. Sì, non posso farci niente! (n.d.r. ride)

Il legame con Butterfly è emerso anche in un’occasione speciale, che l’ha vista anche regista
Ho ricevuto la cittadinanza onoraria di Quistello (Mantova). Qui gestisco una sorta di festival lirico dove firmo anche le regie degli spettacoli, oltre a farne parte come cantante. Scelgo titoli che adoro e Butterfly l’ho proposta la scorsa estate. È un lavoro che mi piace molto. Chiamo colleghi che cantano in grandi teatri, vengono volentieri e accettano quello che chiedo loro a livello registico. Vuol dire che le tante esperienze di regie sullo stesso titolo mi sono rimaste nel sangue e si sono aggiunte alla mia idea. Sì: assolutamente Puccini!
Finora a Quistello ho fatto Rigoletto, Gianni Schicchi e diversi concerti. Questa estate 2020 dovrei riuscire a portare in scena Carmen. Cerco di essere scaramantica, perché si lotta contro un mostro (n.d.r. il coronavirus). Sono spettacoli rivisti, dedicati a un’opera, spesso selezioni unite da un senso. Gestisco la situazione in collaborazione con alcuni musicisti che fanno parte di grandi orchestre, come quella di Pesaro e artisti che vengono per amicizia. Quindi una situazione di alto valore professionale. Lo sento come un dovere. Avevo fatto un concerto a Mirandola con il Maestro Muti per il terremoto del 2012 e lì sono venuta in contatto con l’assessore e il sindaco del mio luogo di origine, che mi hanno voluto conferire la cittadinanza onoraria. Così io, per ringraziare, dal 2016 cerco di portare tanta lirica in un paese che forse non avrebbe mai conosciuto tutta questa quantità di opera.

È un bene divulgare la lirica!
Quando ha qualità è un bene divulgarla. Se non si capisce più cosa sia (n.d.r. ride), la gente sente e dice: ma è tutto qui? Bisogna farla bene altrimenti è meglio non farla.

Tornando ai grandi teatri, lei ha un rapporto di lunga data con l’Arena di Verona, un luogo particolare per la voce
In Arena ho cantato per anni, sempre negli stessi titoli ma in tantissimi spettacoli: Nabucco, Rigoletto, Butterfly, Aida. Ho tanti ricordi, perché l’Arena di Verona è un caso a sé. Non è un teatro, è un’altra cosa. Servono dei cantanti con il volume, quello che mi differenzia, al di là del colore che qualcuno dice essere brillante. Il problema, in uno spazio come l’Arena, è il volume, è la corposità, è la proiezione della voce. Qui ho avuto la fortuna di fare la Butterfly di Franco Zeffirelli, il Rigoletto nell’edizione storica di Ivo Guerra, con Mantova disegnata che era stupenda, ultimamente il Nabucco di Arnaud Bernard, che è straordinario con cavalli in scena e carrozze, ho fatto anche il Nabucco storico. In certi anni sono arrivata a sostenere anche più di venti recite. È un posto a cui sono legatissima anche perché è vicino a Mantova e mi sembra di essere nella mia terra.

Un attaccamento artistico e anche personale?
Sono diventata mamma un anno fa e ho chiamato mio figlio Romeo (n.d.r. un bimbo di pochi mesi i cui gridolini gioiosi fanno da sottofondo alla telefonata) perché il nome è legato a due città a cui sono affezionata: Verona e Roma, dove stavo per quattro-sei mesi. L’Opera di Roma è un altro teatro dove ho cantato veramente tantissimi titoli, da Andrea Chenier a Cavalleria Rusticana, Traviata. Ma anche a Caracalla ho fatto Butterfly con la Fura dels Baus, un collettivo che fa sempre regie particolari. A Roma sono stata fissa per anni e ho fatto molte altre Butterfly con la grande Daniela Dessì: piangevo dall’inizio alla fine, perché era talmente carismatica quando usciva in scena. Quando se ne è andata è stato un dolore insopportabile, dal punto di vista artistico, perché era veramente una delle ultime grandi grandi grandi cantanti.

Cosa significa per lei il teatro dietro le quinte?
Tutte le volte che entro in palcoscenico, anche durante le prove, attraverso il retropalco e annuso il profumo del legno, gli odori che sono tipici del teatro e ogni volta ringrazio Dio di avermi scelta per questa vita, perché non è così scontata.

Un ricordo che viene dal cuore?
Io sono una persona molto sensibile e da quando ho avuto un bambino i sentimenti sono amplificati. Un ricordo speciale è legato a un concerto tenuto anni fa a Bologna con il Maestro Muti al pianoforte, e non so quanti abbiano avuto questo onore. Essere accompagnata al pianoforte in arie verdiane da lui è stato veramente straordinario. Il fine era benefico: con il Maestro sono stata in molti posti, anche a Nairobi, per i concerti Le vie dell’amicizia. Assieme abbiamo girato il mondo. A volte mi dimentico, ma con lui ne abbiamo vissute veramente tante e i ricordi sono molti.
Un altro ricordo speciale è la prima volta che ho cantato in Arena. Dovevo fare Nabucco, però prima mi hanno chiamato, all’ultimo minuto, per una Carmen che faceva parte dei Gala della Rai con la Clerici, e c’era anche Bocelli. Era per me la prima volta che mettevo i piedi su quel palcoscenico. Mi sono trovata davanti “una botta” da 20 mila spettatori. Chi ha cantato in teatro ha una percezione diversa. La magia che dà l’Arena di Verona non è eguagliabile a nessun’altra esperienza in teatro. O ti annienta oppure te ne nutri ed è veramente meraviglioso. Quello sì, è stato un ricordo forte, perché pensavo che il palcoscenico fosse chilometrico e vedevo tutta la gente con le candeline, è stata un’emozione moto intensa. Si, ci sono cose che mi rimarranno nel cuore. A certe, lavorando, ci si abitua, ad altre non ci si abitua mai.

Domanda inevitabile legata al Covid. Come ha trascorso il lockdown? Le è mancato il palcoscenico?
Ho da poco comperato casa a Mantova ma non ho fatto a tempo a trasferirmi. Il lockdown l’ho trascorso a Rimini, una delle zone più colpite e l’ho vissuto malissimo, avendo un bambino di un anno che si fa fatica a gestire. Diciamo che il palcoscenico è entrato in oblio grazie a mio figlio, perché non ho pensato ad altro. Circa i colleghi che ho sentito, in Italia e non solo, dipende da dove si sono trovati per gli ultimi contratti svolti. Un mio collega era a Cagliari e là si viveva aria fresca. Chi invece si è trovato in zone molto colpite ha vissuto una situazione totalmente diversa. Purtroppo ho perso mio padre negli ultimi giorni di gennaio. Gli avevano diagnosticato una polmonite incurabile, non hanno fatto tamponi ma probabilmente era il virus. Io ho fatto una vera quarantena, chiusa in casa col bambino.

La pandemia cosa ha comportato e cosa comporterà?
Si fa fatica a parlare di cosa accadrà perché non è una cosa controllabile. Ci si fa riguardo anche a parlare dell’autunno, quando io ho dei contratti. Ci sono delle città e delle regioni che vedono come priorità il turismo e hanno fretta di ri-iniziare. Bisogna secondo me salvaguardare prima la salute delle persone. Anche di noi artisti, perché tutti parlano solo del pubblico. È una brutta immagine, ma noi quando cantiamo espelliamo saliva, è una cosa naturale. Penso che prima di ri-iniziare bisognerebbe pensare a salvaguardare la salute dei cantanti, dei coristi, degli orchestrali, di tutti quelli che lavorano dietro le quinte. Non solo il pubblico: bisogna tutelare tutti. Il problema è anche che i cantanti devono avere relazioni fra loro, non si può fare un’intera opera a distanze di chilometri. Vedo la situazione come un grande punto interrogativo. Ci sono delle stagioni estive, ma non ho idea in che maniera possano fare.

Il problema nel rimandare le stagioni fissate con artisti internazionali, è anche che la pandemia sta arrivando nel mondo con tempi diversi
No, non ce la si fa. In Arena io ho sempre lavorato con colleghi internazionali, che arrivavano da zone dell’est o da altre parti del mondo. C’è appunto un livello temporale di epidemia completamente diverso da un posto all’atro. Magari, non so se si possa dire o meno, nei teatri italiani potrebbero lavorare più colleghi italiani piuttosto che, in un momento come questo, persone che arrivano da altri luoghi. Anche se a questa modalità credo fino a un certo punto.

E la situazione dei teatri come la vede?
I teatri in Italia non arrivano mai a sostenersi del loro. Una tale situazione di certo non aiuterà, porterà a dei grandi scompensi. Le persone dello spettacolo sono sempre le ultime a venire menzionate dal Governo, perché non sono un genere “di prima necessità”. Non ci hanno manco calcolato, poi a un certo punto si sono accorti noi. Si è capito quali siano le priorità ….

Il suo futuro cosa le riserva? Conferme o cancellazioni causa Covid? Cancellazioni non tante. Mi sono più dispiaciute le cancellazioni che ho dovuto fare durante la gravidanza, veramente tante. Adesso che ho un bambino cerco di lavorare un po’ meno perché vorrei crescerlo io e non farlo allevare da qualcun altro. La cosa bella è che mio figlio a pochi mesi ha stretto la mano a Zubin Metha, eravamo tra l’altro in un posto meraviglioso, sono stata a fare Otello a “casa” dei Berliner Philarmoniker, poi a Baden Baden con un cast stellare. Ha visto il maestro Muti, ha avuto la fortuna di stringere le mani a dei grandi direttori. Portarlo nei teatri in cui canto credo che lo arricchirà. Adesso penso tanto anche a lui, non solo a me. Penso che viaggiare apra la mente e tolga tanti cliché.
Per il futuro ho contratti in settembre, ottobre, dicembre. Ma a parlarne mi sembra di sfidare la sorte, perché si lotta contro questo mostro del virus che non si sa come possa evolvere. Quindi non vorrei dirne, per scaramanzia. Ho un appuntamento molto importante alla Scala, con il Maestro Riccardo Chailly e se si riuscirà, molto volentieri. Vedremo.

Un sogno nel cassetto?
Più che un ruolo, come dicevo, ho questa vena registica e mi piacerebbe che avesse un risvolto, anche se in realtà non ho ancora bussato a nessuna porta. Mi piacerebbe fare un mio spettacolo in qualche teatro importante, magari nei prossimi giorni contatterò qualcuno. Era piaciuta tanto la mia Butterfly ed ero stato aiutata dall’Opera di Firenze per poterla fare in Santa Maria Novella questa estate, ma poi per motivi di sovvenzioni non siamo riusciti. Però sì, ho questo sogno nel cassetto: mi piacerebbe far prendere una piega anche diversa alla mia carriera. Perché adoro fare gli spettacoli, visto che ho tanta fantasia, nel rispetto di quella che è la storia. Chissà. Domani è il mio compleanno. Magari spegnendo la candelina…

25 maggio 2020

 Maria Fleurent per De Artes
Contributi fotografici: Lucio Censi