Sul palcoscenico en plein air dell’Arena di Verona è tornato a sbocciare lo stupefacente giardino di rose di Hugo De Ana, che per l’anfiteatro ha firmato alcune tra le più belle regie degli ultimi anni. Tra le sue migliori, Il barbiere di Siviglia che ha visto per la prima volta la luce nel 2007 ed è stato riproposto in questo festival numero 100.

Rose rosse gigantesche ed enormi farfalle hanno traghettato in un luogo fiabesco che, nella riscrittura registica, ha incarnato appieno lo spirito leggero e la vena buffa dell’opera di Gioachino Rossini. De Ana è riuscito nell’impresa, merce rara in tempi contemporanei, di sviluppare un’idea personale mantenendo fedeltà a musica e testo. Un allestimento giocoso che ha visto, nell’hortus conclusus delimitato da un labirinto di siepi mobili, come fosse un grande carillon, un incessante susseguirsi di controscene affidate a bravissimi mimi e danzatori (fondamentale in tal senso l’apporto coreografico di Leda Lojodice assieme al coordinatore del ballo Gaetano Petrosino) oppure alla coppia di anziani servitori, tra cui la governante ha rivestito un ruolo attoriale assai impegnativo, che l’ha vista pressoché sempre presente in scena.

Tra le verdi pareti di bosso sono apparse fontane e puttini, seguendo l’intrico amoroso dell’esilarante commedia che il librettista Cesare Sterbini trasse da Beaumarchais e che vede il barbiere e factotum Figaro ordire macchinazioni e ideare esilaranti travestimenti perché Rosina e il Conte d’Almaviva possano coronare il loro sogno d’amore. Hugo De Ana – non solo regista ma anche artefice di scene, luci e dei magnifici costumi rococò – ha inserito elementi come gli ombrelli aperti durante il temporale, lo sventolio di ventagli, il passaggio di mano in mano di una scala prima e di una serie di sedie poi, in un susseguirsi di tableau vivant in movimento, spiritosi, vivaci e garbati. Rispetto all’ultima ripresa di questo titolo, erano assenti (pare per il mancato rinnovo del beneplacito circa le regole paesaggistiche) i fuochi d’artificio conclusivi, una spettacolarità frequente in Arena che in questo caso è andata a vantaggio della gradevolezza fine e senza eccessi dell’allestimento.

Lo spettacolo ha avuto inizio con oltre due ore di ritardo, per attendere che cessasse la pioggia caduta su Verona fin dal pomeriggio (e che avrebbe danneggiato i costosi strumenti dell’orchestra). L’Arena sprigiona in ogni circostanza un fascino particolare e offre sempre uno spettacolo nello spettacolo. Però il pubblico in questa occasione non si è comportato educatamente: dopo le prime battute d’inizio, risuonate alle 23.15, e durante l’intero primo tempo ha dato il via a un esodo di massa verso le uscite. Esodo assolutamente inspiegabile data la raggiunta stabilità meteorologica. Perché allora non andarsene prima, evitando l’acquazzone e senza arrecare disturbo ai tanti che si volevano godere l’opera?

Causa l’irrequietezza del pubblico è stato arduo riuscire a concentrarsi e gustarsi appieno le raffinatezze e le preziosità profuse a piene mani dal direttore Alessandro Bonato, al suo sfolgorante esordio alla guida dell’Orchestra areniana (in una delle sue prestazioni migliori). Il direttore ventisettenne, astro in vertiginosa ascesa e già collocabile ai vertici del panorama operistico, ha innanzitutto sfatato l’errata convinzione che la vastità dell’anfiteatro non consenta di percepire i dettagli. Al contrario: l’acustica ha permesso appieno di deliziarsi della lettura improntata a leggerezza e freschezza, delle dinamiche bilanciate con gusto, di quella briosità che è nata dalla comunione d’intenti con lo spirito rossiniano e, da lì, si è estesa ai tempi, trovando mille sfumature e una vivace gamma di colori.

Bonato ha avuto anche il merito di aver reso giustizia a un approccio rossiniano filologico ma non pedante: oltre ad aver ripulito l’esecuzione da quelle che in gergo si chiamano “caccole”, ossia sporcature buffe sedimentate da certa tradizione passata (operazione divenuta fortunatamente frequente in anni recenti), ha riportato le vocalità a quelle primigenie (Rosina e Berta), ha aperto i tagli, ha mantenuto ed esaltato le infiorettature, ha ricondotto i recitativi alle originarie sonorità. Da menzionare, a tal proposito, Richard Barker maestro al cembalo, il continuo di Sara Airoldi al violoncello e Riccardo Mazzoni al contrabbasso.

Oltre alla direzione, anche il cast si è rivelato di qualità artistica nulla meno che ottima, formato interamente da stelle di prima grandezza specializzate nel repertorio rossiniano, chi da più e chi da meno lunga data. E, si sa, quando gli interpreti sanno il fatto loro e si divertono, anche il pubblico si diverte: questa è la prima carta vincente di uno spettacolo.

Al baritono slovacco Dalibor Jenis è calzato a pennello l’abito di Figaro, ruolo che ha affrontato molte volte nella sua carriera. Del barbiere ha messo in risalto la scaltrezza e, nonostante l’attaccamento al denaro, anche una certa dose di signorilità. Il canto è risultato sonoro pastoso e accattivante, e ha tratto sicurezza dall’uso assai controllato dei propri mezzi. Una voce dal bel colore e dalle interessanti sfumature espressive quella di Vasilisa Berzhanskaya, disinvolta Rosina, astuta e capace, sotto la patina di dolcezza, di rigirare gli uomini come calzini (n.d.r. oh, che invidia!). Oltre al timbro gradevole e omogeneo in tutta la gamma, del giovane mezzosoprano russo, in questa occasione, è spiccata soprattutto la musicalità.   

Tra coloro che vantano una lunga frequentazione rossiniana, essendo un esponente della migliore Scuola, era il tenore Antonino Siragusa Conte d’Almaviva, perfetto nella parte, morbido nei legati e limpido nella dizione, quanto raffinato nel fraseggio e con un entusiasmante sfoggio di fioriture eleganti.  

Eccellenti pure i due bassi. Michele Pertusi, professionista di lusso capace di muoversi altrettanto bene in ruoli seri quanto necessitanti, come nel caso di Don Basilio, di una notevole dose di vis comica che ha parallelamente lasciato spazio alla nobiltà del suo canto, unita alla proiezione e ad un fraseggio sempre attentamente curato. Carlo Lepore ha adattato la voce affascinante alle necessità buffe di Don Bartolo, restituendo un personaggio irresistibile, simpaticissimo nella sua antipatia, con innumerevoli ricercatezze stilistiche emerse anche nel fraseggio, ed eccellendo nel sillabato veloce, particolarmente scandito nella dizione quanto garbato nell’emissione.

In ruoli che, nel titolo rossiniano, non sono comprimari ma possono – e hanno saputo – ritagliarsi uno spazio di primo piano, l’esperto Nicolò Ceriani nelle duplici vesti di Fiorello e Ambrogio, assieme ai due esordienti Lorenzo Cescotti nella divisa da Ufficiale e Marianna Mappa, Berta. A quest’ultima va una speciale nota di merito non solo per la prestazione vocale egregia, ma anche per aver costituito dal punto di vista attoriale uno dei punti di forza delle controscene registiche, nel suo caso vere e proprie scene protagonistiche.
È “filato come un treno” il Coro Areniano diretto da Roberto Gabbiani, instancabilmente attivo scenicamente quanto musicalmente puntuale preciso e aggraziato al punto giusto, senza leziosità.

Il barbiere di Siviglia torna nella stagione 2023 all’Arena di Verona per sole altre due imperdibili repliche, il 13 e 22 luglio.

Recensione Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 30 giugno 2023
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona