La straordinaria accoppiata formata da Alessandro Preziosi, regista e attore, e Michelangelo Pistoletto, artista le cui opere sono state utilizzate come “oggetti di scena”, ha sancito il successo, peraltro annunciato, di “Aspettando Re Lear”. Uno spettacolo di eccelso livello qualitativo, ottimamente strutturato in ogni suo aspetto: dalla regia alla scenografia, dalla drammaturgia alla parte attoriale. Tutti gli elementi hanno attinto ispirazione e forza l’uno dall’altro, dimostrandosi complementari e compenetrabili, interagenti e assonanti. Una volta tanto, e accade di rado, l’idea descritta nelle note di sala è stata realizzata in toto e sono state mantenute le più alte aspettative.
Grazie a questa produzione Pato – TSV Teatro Stabile del Veneto, il cartellone del Festival Shakespeariano di Verona ha presentato uno dei suoi fiori all’occhiello. Anche il cielo ha mostrato rispetto per lo spettacolo: il solito nubifragio cui l’Italia è tristemente abituata in questi giorni, ha atteso la fine della seconda recita per scatenarsi. Spettacolo salvo, quindi, per volere del “caso” ma anche sorprendentemente perdurante nel tempo. Infatti gli spettatori, all’uscita dal Teatro Romano, si sono trovati materialmente immersi in quella tempesta shakespeariana da cui questa rilettura drammaturgica ha preso le mosse.
Prima ancora, va sottolineato il “caso” della sequenza di date: a Verona “Aspettando Re Lear” è andato in scena il 20 e 21 luglio, dopo aver esordito in anteprima a Napoli il 9. Nel mezzo, il 12 luglio, sempre a Napoli, l’atto vandalico con cui l’imbecille criminale di turno ha dato alle fiamme la declinazione formato maxi dell’installazione forse più celebre di Pistoletto, uno dei massimi esponenti dell’Arte Povera: La Venere degli stracci. L‘artista classe 1933, riportano le cronache, ha commentato di non essere rimasto stupito dal rogo ma spaventato da esso, in quanto espressione di una situazione drammatica del nostro tempo, in cui si risponde con la violenza, o con le guerre, alle manifestazioni della bellezza.
Si potrebbe aggiungere che il fuoco appiccato alla Venere, andata completamente incenerita, pur se atto premeditato era un gesto non prevedibile, ascrivibile nel registro della casualità cui le opere d’arte sono soggette nella loro vita, nella loro funzione di perdurare nel tempo. Il caso, quindi, fa sì che un’opera sopravviva o vada perduta. Proprio quel “CASO” che è il fulcro del pensiero artistico-filosofico di Pistoletto e che abbiamo ritrovato come elemento cardine dello spettacolo.
L’adattamento della tragedia di Shakespeare operato da Tommaso Mattei, con l’ausilio delle musiche originali di Giacomo Vezzani, ha proiettato il testo in un’ottica contemporanea confermando i corsi e ricorsi storici della società, con le sue cicliche contraddizioni e criticità, iniziando dal difficile rapporto tra padre e figli (sui quali ricadono le colpe dei genitori) per culminare con il tempestoso e oscuro percorso che affronta l’uomo quando si pone alla ricerca di se stesso.
Sostanziali alla narrazione, a tutti gli effetti co-protagonisti, gli elementi pistolettiani in scena: un arco di mattoni a far da cornice a uno specchio, richiamo alla serie delle opere “specchianti”; una struttura quadrata a cingere due sedute dall’esplicativo titolo “Quadro da pranzo”; una porta strozzata al centro come una clessidra, forma ripresa anche nel bavero del trench di Lear (costumi ecosostenibili, e scomponibili per una significativa svestizione, di Cittadellarte Fashion B.E.S.T.); una ringhiera multiuso, pulpito e scogliera dalla quale affacciarsi; una panca sotto la quale era posta una sfera; il pavimento su cui era disegnato il simbolo dell’infinito, altro elemento chiave nella poetica di Pistoletto; infine una struttura ondulata di cartone snodata fino a formare un labirinto. Mentale, ovviamente. Il labirinto della tempesta che sferza Lear, il suo turbamento esteriore (la pazzia) e interiore (sempre la pazzia) nel trovarsi ad attraversare il nulla, il vuoto che deve superare l’uomo per recuperare la propria natura dopo averla decostruita, dopo averla privata degli orpelli artificiosi.
Lear è incapace di amare, ama solo se stesso e il potere derivatogli dalla posizione di comando. Ma il suo percorso lo porterà, da Re, a riscoprirsi uomo. Fino all’atto conclusivo di questa specifica versione, in cui Lear e la figlia Cordelia se ne sono andati assieme a braccetto, dopo aver forgiato ex novo un rapporto di affetto parentale. Lo specchio inserito nell’arco ha accompagnato questo processo, mostrando a ciascun personaggio la sua natura riflessa: una immagine distante dal soggetto eppure coincidente con il soggetto stesso. Una narrazione quindi svolta secondo le regole di un caos ordinato, del “caso” che ha trovato esplicazione logica nella consequenzialità.
Su ispirazione proceduta in parallelo, la regia di Preziosi ha applicato il concetto di “caso” a Shakespeare, e ha ricollocato gli oggetti in uno spazio non fisico ma di valori. La tragedia era condensata in quattro figure simbolo: il Re, il Matto, il Servo, il Pazzo (in realtà cinque personaggi), da intendersi come chiavi di lettura per accedere all’universo shakespeariano, la cui inventiva linguistica è rimasta stupefacentemente integra in questa drastica potatura drammaturgica. Le figure/chiave hanno guidato attraverso la tempesta Lear, che in loro ha visto riflessa la sua essenza, quasi come se i personaggi fatti muovere dal regista Preziosi avessero moltiplicato metaforicamente la superfice specchiante di Pistoletto.
Se da un lato Preziosi, in veste di regista, ha saputo mantenere sempre alta la tensione drammatica, che non ha avuto alcun momento di cedimento, dall’altro ha dimostrato un ulteriore incremento nella propria maturità attoriale. Interprete sopraffino, maestro di inflessioni vocali ed espressività fisica, del viso e del corpo, Preziosi ha sostenuto una prova intensa, profonda, superlativa.
Era attorniato da attori d’equivalente valore qualitativo, impegnati a dar vita a personaggi che, già in Shakespeare, sovvertono l’ordine sociale, a iniziare dal Re spodestato di cui ha vestito i panni Preziosi. Poi Federica Fresco eccezionalmente brava nel ruolo di Fool, che ha spinto il Re a recuperare la parola (shakespeariana) stuzzicandolo con ironici giochi verbali, fino a trasformarsi nella figlia Cordelia, figura salvifica; Roberto Manzi, Conte di Kent prestatosi a fare il servitore per fedeltà al sovrano, presenza pressoché fissa in scena, sostenuta con incisività; Nando Paone, aristocratico nell’impersonare Gloster, non ancora accecato e perciò incapace di vedere; Valerio Ameli estroso al punto giusto nella parte sfaccettata di Edgar mendicante pazzo, figlio del Conte.
Come si diceva, Lear /Preziosi è passato, magistralmente, dall’arroganza del Re all’umiltà dell’uomo, dall’incapacità di amare altri se non se stesso alla follia che è uno stadio verso la consapevolezza. La pazzia è condizione indispensabile per ritrovare il senno, la ragione.
Metafora della condizione umana, della sua caducità e della sua capacità di rigenerarsi, il Re, che tutto possiede, si è trovato solo, al cospetto del nulla, dapprima rimanendone turbato, poi accettando la constatazione che anche il potere, per la sua provvisorietà, sia nulla, sia la non permanenza del tempo – come indicato dallo specchio e dalla porta a clessidra – e pone l’uomo in una condizione di attesa beckettiana.
Abbiamo assistito quindi alla sublimazione chimica del Terzo Paradiso di Pistoletto, quel simbolo dell’infinito tracciato sul pavimento del palcoscenico che ha rappresentato la conquista di un equilibrio tra la natura primigenia e l’artificiosità dei bisogni dell’uomo, il raggiungimento di un ordine nel caos. Così, lo spettacolo ha chiuso il suo cerchio narrativo trovando, nella congiunzione formale tra i suoi vari elementi costitutivi, soluzione al “caso”, alla non ripetibilità – ma piuttosto circolarità – del tempo.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Romano di Verona, Festival Shakespeariano, il 21 luglio 2023
Immagini: Estate Teatrale Veronese